Gioconda, la ragazza cui non era cresciuto il seno. Una storia di counseling.
La Storia di Counseling, quella di Gioconda, qui raccontata, è tratta dal Manuale di Istruzione e Formazione IN Counseling, di Domenico Nigro, Counselor, Formatore e supervisore in counseling, direttore della Scuola IN Counseling Lo Specchio Magico Torino.
- 12 novembre – martedì – telefonata
- 15 novembre – venerdì – 1° counseling
- 18 novembre – lunedì di scuola
- 19 novembre – martedì – 2° counseling
- 22 novembre – venerdì, supervisione
- 23 e 24 novembre – weekend sulla competizione
- 29 novembre – venerdì – 3° counseling, dopo la nuova psichiatra
- 2 dicembre – lunedì di scuola
- 6 dicembre – venerdì – 4° counseling individuale (ultimo giorno di antipsicotici)
- 13 dicembre – venerdì – depressione (aumento degli antidepressivi) – inizia il trheekend
- 16 dicembre – lunedì di scuola
- 19 dicembre – giovedì – 5° counseling individuale
- Riflessioni e considerazioni finali
MARTEDÌ 12 NOVEMBRE 2019 (telefonata)
Sono un counselor, ricevo una telefonata, una voce dai toni lamentosi e un po’ tremante:
– Buon giorno dottor Nigro, sono Gioconda, un’amica di Giovanna
– Oh sì, ciao Gioconda, Giovanna mi ha avvisato che avresti chiamato
– Sì dottor Nigro, sto attraversando un brutto momento e ho bisogno d’aiuto. Giovanna mi ha detto che lei potrebbe darmelo, ma io non so …
– Cosa ti succede?
– Sì, proprio per questo la sto chiamando, anche se non so se lei possa essere la persona giusta
– Gioconda cosa ti succede? Se me lo dici ti dico se posso aiutarti
– È che io ho un disturbo ossessivo compulsivo
– Ma te lo sei autodiagnosticato?
– No, me l’ha detto la psicoterapeuta dalla quale sto andando, ma io non so, continuo a stare male, prendo delle medicine, non so cosa fare, non so nemmeno se lei dottor Nigro mi può aiutare
– Gioconda ma le medicine che prendi te le ha prescritte qualcuno?
– Sì, me le ha prescritte una neurologa, dalla quale mi ha mandato la dottoressa psicologa che mi sta seguendo
– Ascolta Gioconda, adesso, così su due piedi, al telefono non saprei dirti se e in che modo io possa aiutarti, però ti propongo di incontrarci una volta, per parlarne con calma e bene e, se poi valutiamo che io non sono la persona giusta, magari ti aiuto a chiarire cosa meglio puoi fare e con chi per risolvere il tuo problema; se invece scopriamo che io posso fare qualcosa per te, vediamo se possiamo metterci d’accordo per farlo; va bene?
– Sì, sì, va bene.
Così fissiamo un appuntamento.
Di Gioconda avevo saputo, da Giovanna, che era una ragazza molto giovane (intorno ai vent’anni),
fidanzata di un suo collega. L’aveva conosciuta da pochi giorni.
– Ieri ho conosciuto una ragazza, la fidanzata di un mio amico, l’ho vista messa proprio male e le ho detto che se voleva poteva chiedere aiuto a te, le ho dato il tuo telefono, magari ti telefona
– Hai fatto bene, ma quanti anni ha?
– Una ventina
– Ok, grazie.
Che questa situazione sia di confine per il counseling è un dato di fatto.
Gioconda si presenta, sin dal primo contatto telefonico, come persona in cura da una psicoterapeuta,
con una diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo e una prescrizione farmacologica; cosa può
farsene di un counselor?
Partiamo da ciò di cui mi sono accorto, circa lo stato di Gioconda, in forza di questa prima
telefonata:
- innanzitutto, il fatto che mi telefoni (quanto sopra riportato è solo uno stralcio dell’intera telefonata) in cerca d’aiuto, raccontandomi con precisione cosa le stia capitando, e i suoi dubbi circa la gestione della cosa, testimonia un suo apprezzabile livello di “presenza” e di autodeterminazione, seppur in una condizione soggettiva di parziale disorientamento, palese nel suo non sapere come affrontare quello che le sta capitando, nella sua insicurezza che quello che sta facendo sia risolutivo o giusto, nella sua incertezza sull’utilità delle cure/terapie che ha in corso;
- Gioconda è chiaramente spaventata, preoccupata di non potere, o non riuscire a, risolvere il proprio problema;
- Gioconda è tormentata, oltre che dal suo star male, dalla paura di non potere/sapere come affrontarlo.
Se guardiamo al counseling come a una relazione d’aiuto professionale volta a sviluppare stati di consapevolezza personale più consoni ad affrontare situazioni, contingenti, di difficoltà esistenziali, questo è un caso in cui un counselor (meglio se con buona esperienza) può offrire un buon contributo.
Certo, sono sempre necessarie alcune condizioni perché un counselor possa operare e cioè che:
- il suo cliente sia in grado di intendere e di volere, dimostrando sufficienti capacità di analisi e ragionamento logico sulle problematiche che sta vivendo ed essere, in qualche modo, capace di sostenere il confronto sulle stesse;
- sia in grado di riconoscere il senso di quello che gli sta accadendo e di cosa lui stesso stia facendo in relazione a quello che gli sta capitando, riflettendo sulla cosa;
- sia in grado di gestire, nelle proprie relazioni interpersonali o, almeno, in quella di counseling, le proprie sensazioni ed emozioni ed i propri sentimenti, senza portare la propria sofferenza a livelli per lui stesso ingestibili e senza arrecare danno a se stesso e/o alle persone con cui è in relazione.
Quindi, per tacitare ogni polemica interpretazione su quanto finora presentato, voglio richiamare l’attenzione su due fatti incontrovertibili:
- ho fissato (potrei dire “sub judice”, in attesa cioè di verificare più approfonditamente lo stato delle cose riguardanti Gioconda e, solo allora, decidere il da farsi) l’appuntamento con Gioconda, perché mi ha chiamato chiedendomi se potevo aiutarla a gestire una sua condizione di malessere, rispetto alla quale non era sicura che quanto stesse facendo fosse la cosa giusta per lei;
- di tale condizione di malessere ho ritenuto che sarebbe stato opportuno analizzarne gli aspetti esistenziali, NON solo di cura-terapia medicalizzata, dei disturbi diagnosticati, ma di difficoltà, in generale, a stare con, e gestire, tutto quello che le stava capitando e, in particolare, “stare con e gestire” quello che le era stato diagnosticato ed il miglior modo di prendersene cura, anche trovando il/i professionisti più indicati alla bisogna.
Aiutare una persona a gestire simili fatti è una competenza specifica di chi fa counseling.
In simili casi, la probabilità che una relazione di counseling possa aprire a sviluppi più che soddisfacenti è molto alta, purché sia gestita da chi sia realmente capace di “fare counseling”, avendone seguita la specifica formazione.
Ma, cosa dà a un counselor la misura della presenza delle condizioni A, B e C, qui sopra esposte?
Nella relazione di counseling, la misura di questa “presenza” è data dalla qualità del “contatto” che si stabilisce tra counselor e cliente.
Noi counselor non possiamo che fare counseling sulla base delle caratteristiche del “contatto” che stabiliamo e sviluppiamo con ciascun nostro cliente.
Le modalità del fare counseling sono sempre una funzione diretta della consapevolezza del counselor circa le caratteristiche del “contatto” che intrattiene con il proprio cliente.
Il contatto al quale qui mi riferisco è quello già definito in questo stesso manuale:
- quello stato dell’essere, di chi agisce una relazione, caratterizzato dalla consapevolezza di ciò che nella relazione stessa e in chi la sta esercitando stia avvenendo e del come questo avvenga.
Il contatto è quello stato dei parlanti, in relazione, che permette loro di comprendersi, nei pensieri, nei sentimenti, nelle parole.
Quando del loro contatto i parlanti sono consapevoli, comprendono anche il “cosa” caratterizza la loro relazione e il “come” questa stia avvenendo.
A chi ritiene impossibile, o perlomeno pericoloso per la salute pubblica, il fare counseling senza disporre delle specifiche capacità diagnostico-terapeutiche proprie di altre professionalità, rispondo innanzitutto che il counseling ha una sua particolare qualità fondata proprio sul non avere, non sapere, non potere, noi counselor, fare né diagnosi, né psicoterapia, così da non esserne influenzati.
Per noi counselor, nel counseling non sono in campo capacità diagnostico-terapeutiche, sono in campo capacità di ascolto, di accoglienza, di osservazione non giudicante, di comunicazione, finalizzate ad attivare positivamente nei nostri clienti stati d’animo e pensieri in grado di orientarli verso comportamenti funzionali ad una migliore gestione delle difficoltà esistenziali rispetto alle quali ci chiedono aiuto (difficoltà esistenziali, prego prendere nota, NON malattie o disturbi mentali).
Ascolto, accoglienza, osservazione non giudicante e comunicazione non violenta sono le “pratiche” che strutturano la relazione di counseling, ad esso danno identità, carattere e qualità.
Nel counseling, l’ascolto, l’accoglienza, l’osservazione e la comunicazione, sono dinamiche relazionali specifiche, per molti aspetti diverse da ciò che comunemente viene inteso.
Un counselor inizia a fare counseling quando, dopo essere “entrato” con il proprio cliente in uno specifico setting di counseling, “si mette in ascolto”, accogliendo ciò che sente, osservando ciò che vede e ascolta, senza giudicarlo, entrando in relazione con il cliente e gestendola con modalità non violente.
La qualità di questo ascolto, le sue caratteristiche e le sue dinamiche, così come la qualità, le caratteristiche e le dinamiche dell’accoglienza, dell’osservazione e della comunicazione interpersonale ad esso associate, sono ciò che individuano, caratterizzano, qualificano e rendono possibile la relazione di counseling.
VENERDÌ, 15 NOVEMBRE 2019 (1° counseling)
Ricevo Gioconda nel mio studio.
Mi accorgo subito di una sua certa trasandatezza.
Capelli lunghi, non curati, cascanti sul viso. Sguardo spaurito e rivolto verso il basso. Postura raccolta, spalle curve, in avanti. Abbigliamento “abbondante”, come ci fosse caduta dentro.
La faccio accomodare, invitandola a levarsi il giaccone.
Gioconda si siede nella poltrona che le indico e si riassetta i capelli, scoprendo il viso, con un timido sorriso.
È proprio una bella ragazza. Larghi occhi castani. Lineamenti fini. Labbra ben disegnate e carnose.
Mi racconta di come ha conosciuto Giovanna. Di come sia rimasta colpita dalla sua gentilezza e umanità.
Mi dice che ha sentito subito di potersi fidare di lei, per questo si è permessa di dirle che non stava attraversando un buon periodo, per questo ha sentito di potersi fidare, nel cogliere il suo invito a chiedere aiuto a me, il direttore didattico della scuola di counseling cui era iscritta.
Mi racconta di quello che le sta accadendo, che lei fa partire da un suo inaspettato e improvvido sguardo, caduto sul generoso decolté di una collega insegnante, durante un “tête-à-tête” lavorativo con la stessa.
Gioconda ha 23 anni.
Tre anni or sono si è trasferita, da sola, a Torino, proveniente da un paese in provincia di Napoli.
Aveva vinto un concorso per un ruolo di insegnante di sostegno in un istituto alberghiero.
Così, a vent’anni, lascia la famiglia d’origine e inizia una nuova, propria, autonoma e indipendente, vita.
Va tutto bene, fino a quando, in un giorno di maggio, quasi sei mesi or sono, non le cade quello sguardo e tutto diventa impossibile.
– Mio Dio! Chissà cosa avrà pensato?! Mi sono ritrovata a fissarle il seno e appena me ne sono accorta mi sono girata di scatto, tremante. Ho finito il colloquio con la mia collega tenendomi di sbieco, senza guardarla in faccia, quasi girata di spalle. Non ce la facevo a rimettermi in una posizione consona al nostro parlare. Lei si sarà sicuramente accorta della stranezza della cosa e infatti, da quel giorno, ha cominciato ad evitarmi. Lei che abitualmente si veste di abiti succinti, attillati, che mettono in mostra le sue forme, ed espongono ben bene gran parete del suo corpo, da quel giorno, ogni volta che è costretta ad avere a che fare con me, per questioni lavorative, si ammanta, chiudendosi in un ampio scialle. Da settembre, con l’inizio del nuovo anno scolastico, non abbiamo più la stessa classe, non abbiamo più occasioni di scambi lavorativi, e lei quando mi vede da lontano, nei corridoi, si copre tutta e tira diritto senza salutarmi.
Il problema è che io sono cresciuta con mia nonna, che mi diceva di mettermi le “pezze” per riempire il reggiseno e non far vedere che non mi cresceva il seno.
Il problema è che mia nonna ha continuato a dirmi che dovevo andare da un dottore, fare una cura ormonale, fare qualcosa per farmi crescere il seno, perché altrimenti non sarei stata una donna, non avrei potuto avere dei figli, nessuno mi avrebbe voluto …
Gioconda narra di sé, bambina che viene presa in casa dalla nonna, e da questa cresciuta, per aiutare la sua famiglia.
Dal mio confrontarla sul suo racconto di quanto le era accaduto, su quanto le stesse accadendo, su come la cosa si fosse sviluppata e da cosa, viene fuori il seguente quadro.
Sua nonna è una “donna all’antica”, convinta che per essere donna si debba avere un seno prosperoso; così mortifica in continuazione Gioconda, da quando, ragazzina, avrebbe dovuto cominciare a crescerle il seno e questo non avveniva (per sua nonna, Gioconda deve riempirsi il reggiseno di “pezze”, non far vedere che non le stanno crescendo le tette, andare da un medico, fare cure ormonali; la terrorizza sul fatto che non sarà mai una donna, non potrà avere figli, nessuno la vorrà!); Gioconda cresce in preda al timore di non andare bene come donna, nonostante buoni successi con l’altro sesso (i ragazzi la cercano e l’ “apprezzano”; non le è mai mancato un ragazzo che la corteggiasse, né un fidanzato); Gioconda preferisce la compagnia maschile a quella femminile, evitando il più possibile di stare con persone del suo sesso; tutto questo non sembra comportarle disagi particolari, fino a quando, a fine maggio 2019, non molti giorni prima della fine della scuola, ha una reazione inaspettata, sconsiderata e assolutamente inappropriata, relativa al suo accorgersi di fissare il generoso decolté di una sua collega, una cara collega, 45 anni o giù di lì, con la quale ha un buonissimo rapporto, di reciproco riconoscimento, pur criticandone, in cuor proprio, il modo di vestirsi, considerato inappropriato in un contesto scolastico; una donna che lei vive quasi come fosse una “mamma”, per il suo modo materno di trattarla e prendersi cura di lei.
Da quel giorno, da quel maledetto sguardo, Gioconda entra in un tunnel disperante. Fatica a portare a termine l’anno scolastico, svolgendo normalmente le proprie mansioni di insegnamento. Ha paura che le sue allieve si accorgano della sua paura di guardarle, temendo di ritrovarsi a fissarne i seni; è sempre in uno stato di allarme che la spossa. Per fortuna la scuola finisce, ma l’estate avanza e intorno a lei è un fiorire di situazioni pericolose, che non sa come gestire. Fa caldo, le ragazze si vestono sempre meno, di conseguenza i loro seni, le loro forme, sono troppo a portata d’occhio. Per non parlare delle vacanze al mare, con tutte quelle donne in bichini. Per Gioconda è un inferno.
Ricomincia la scuola e le cose peggiorano. Non può avvicinarsi alle sue allieve, perché loro si ritraggono e si coprono tutte, chiudendosi nelle loro giacche o nei loro scialli; non riesce ad avere una vita sociale, uscire la sera, frequentare luoghi pubblici, perché non regge la vicinanza con altre donne; è tormentata dalla paura di fissare i loro seni; si impone di guardarle in viso, ma non ci riesce e finisce col ritrarsi lei stessa o col dare loro le spalle.
Gioconda, continua ad andare regolarmente a scuola, a fare il suo lavoro; riduce il più possibile il contatto con le donne, limitando la sua vita sociale, ma sprofonda via più in una condizione soggettiva, di disagio psichico e di malessere esistenziale, che non riesce più a reggere.
Così si rivolge ad una psicoterapeuta (trovata su internet). Le racconta quello che le sta succedendo e lei, dopo essersi ammantata in uno scialle, coprendosi ben bene il petto, la sottopone ad una serie di test (tra cui le macchie di Rorschach), arrivando a diagnosticarle un disturbo di tipo ossessivo-compulsivo.
Le spiega che avrà bisogno di una terapia farmacologica, che le diminuirà l’incidenza, nel suo vivere quotidiano, della sintomatologia ossessiva-compulsiva che la affligge, permettendole di portare avanti una psicoterapia, attraverso la quale puntare a risolvere il suo disturbo psichico.
Gioconda acconsente.
A questo punto, con Gioconda di fronte, la dottoressa, psicologa e psicoterapeuta, chiama una sua collega-amica neurologa, le dice che le sta inviando una sua paziente affetta da un disturbo ossessivo-compulsivo, bisognosa di un adeguato trattamento farmacologico e consiglia a Gioconda di prendersi un mese di mutua, per evitare le situazioni sociali per lei destabilizzanti e facilitare così il ricostituirsi di condizioni personali adeguate ad una ripresa della sua vita sociale.
Siamo intorno alla metà di settembre 2019. Gioconda, rifiuta l’idea di chiudersi in casa, in mutua, ma va dalla neurologa, che la visita, aggiunge alla diagnosi di ossessione-compulsione quella di sofferenza da ansia anticipatoria (perché Gioconda le racconta che, prima di andare a scuola a lavorare o quando sa di dover incontrare altre donne, entra in un forte stato d’ansia) e le prescrive un mix di ansiolitici, antidepressivi e antipsicotici, da assumere mattina e sera.
Su Gioconda, i primi effetti della terapia farmacologica sono un generale intontimento e un rallentamento delle sue funzioni motorie. Il suo atteggiamento (ossessivo-compulsivo?) nei confronti delle donne rimane, ma ne sono rallentate le risposte comportamentali; in “compenso” Gioconda entra in uno stato di tristezza acuta che esplode in un pianto continuo, irrefrenabile, costringendola, adesso sì, a mettersi in mutua (come andare a scuola se non si riescono a trattenere le lacrime e queste scorrono inesorabilmente, senza sosta?).
La psicoterapeuta le dice che forse c’è da rivedere la terapia farmacologica e la invita a ritornare dalla neurologa per verificare la cosa. Così viene riformulata la posologia dei farmaci che sta assumendo (diminuzione dell’antidepressivo, aumento dell’antipsicotico); Gioconda smette di piangere e può così riprendere (dopo una settimana) ad andare a lavorare; rimane in uno stato di intontimento generale e di torpore motorio, continua ad andare settimanalmente dalla psicoterapeuta, dalla quale apprende della propria “ferita narcisistica”, della propria sventura d’aver avuto una “madre assente” e di essere stata “vittima” di una “nonna carnefice”.
Gioconda è in preda ad una lucida disperazione. Teme che l’aiuto psicoterapeutico-farmacologico che sta ricevendo non sia la miglior risposta ai suoi problemi, il cui stato non vede migliorare, anzi vive con l’appesantimento di un generale intontimento dei sensi e con un senso di inadeguatezza alla vita crescente, viste la quantità e la qualità dei “giudizi-etichette” che si ritrova appiccicata addosso. Così va da un altro professionista medico, uno psichiatra, che le conferma le diagnosi ricevute e la farmacologia che sta assumendo, prospettandole una sua prossima variazione, in funzione del trattamento psicoterapeutico cui la sottoporrà.
Gioconda sceglie di continuare ad andare dalla sua psicoterapeuta e di non proseguire con lo psichiatra, perché non riscontra in lui sostanziali differenze di modalità d’aiuto ed in più le costerebbe maggiormente, inoltre, pur non essendo affatto convinta che sia la cosa migliore per lei, in mancanza d’altro, non considera possibile rinunciare alla sua psicoterapeuta e rimanere senza qualcuno che la aiuti. Qualcuno che sta ancora cercando, in questo momento chiedendo a me chi possa essere questo qualcuno e, se, per caso, possa essere io.
Ora, Tu che leggi è bene che sappia che quanto hai appena letto è il mio resoconto di quanto emerso dalla parte iniziale del mio primo colloquio/confronto, vis a vis, con Gioconda, ma ciò che ancora non sai è come io sono stato durante la gestione di questo colloquio/confronto e cosa da questo mio “stare” sia scaturito.
Sono stato in ascolto, nei termini fin’ora presentati in questo manuale, come fa un counselor.
Sono stato in ascolto, prestando attenzione a come mi sentivo e a cosa sentivo, nell’accogliere tutto ciò che Gioconda mi riportava e tutto ciò che questo produceva, come percezioni sensoriali, in me.
Sono stato in ascolto, con l’intenzione di scegliere, al meglio, cosa farmene di ciò che sentivo, di ciò che a tal proposito pensavo, di ciò che pensavo circa quanto Gioconda mi stava raccontando.
Mi sono quindi accorto di quanto fossi dispiaciuto per quello che le stava capitando, e le era capitato; di quanto fossi in allarme per quello che le stava succedendo e per le pieghe “terapeutiche” che la cosa stava prendendo.
Ho compreso la paura, la disperazione, il senso di impotenza di Gioconda, sentendone le sensazioni risuonare in me.
Ho ammirato il suo coraggio e la sua determinazione, quella di una ragazza di vent’anni che lascia famiglia e casa, dalla provincia di Napoli si trasferisce, da sola, a Torino, trova una nuova sistemazione abitativa, si mantiene in piena autonomia e indipendenza, svolgendo un lavoro delicato, di insegnante di sostegno per classi scolastiche con allievi con deficit certificati. Una ragazza con trascorsi familiari difficili, che prende in mano la propria vita e si sforza di migliorarla. Poi all’improvviso qualcosa collassa nella sua esistenza, ma lei non si dà per vinta, pur nel malessere, forse nella malattia (se così deve essere considerato il disagio psichico che sta vivendo), non si arrende e si “sbatte” alla ricerca di un rimedio.
Ora, io non ho alcuna competenza per diagnosticare alcunché. Non posso quindi, né voglio, pronunciarmi sulla giustezza delle diagnosi e dei relativi trattamenti terapeutici che a Gioconda sono stati somministrati.
Ma posso assicurare che quanto ho appena scritto, qui sopra, dal mio dispiacere per lei in avanti (escludendo l’allarme relativo alle pieghe “terapeutiche”), è stato quanto ho riferito a Gioconda, come mio primo feedback, e mentre glielo dicevo, il suo volto si illuminava di gratitudine e di speranza, manifestando chiari segni di auto-incoraggiamento: “Finalmente qualcuno che mi capisce. Sì, ce la posso fare”, sembrava dirsi, e infatti me l’ha detto!.
Nel formulare il mio feedback (di feedback, in questo manuale, si parla più volte e ad esso è dedicato, specificatamente, il capitolo 3.3), ero altresì concentrato nell’analizzare il “che fare” con lei.
Ora, che Gioconda fosse in preda ad una qualche forma di disagio psichico, sembrava evidente; e infatti a Gioconda la cosa era stata diagnosticata da una apposita coppia professionale, composta da una psicoterapeuta e da una neurologa, che l’avevano in cura.
Le questioni che il mio farle counseling ponevano erano tutte rivolte a come migliorare il suo modo di affrontare quanto le stava capitando, sia come aiuto a meglio gestire le cure che stava ricevendo, ed i loro effetti collaterali, sia come lavoro di consapevolezza sulle dinamiche esistenziali relative agli accadimenti in causa.
Il lavoro di consapevolezza al quale mi riferisco riguarda:
- ciò che possiamo/sappiamo fare per aiutarci a meglio scoprire/conoscere/riconoscere quanto “sentiamo”, quanto “pensiamo”, quanto “facciamo”, relativamente a ciò che ci mette in difficoltà,
- come tutto questo stia insieme,
- quali effetti produca,
- come intervenire su ciò che “sentiamo”, “pensiamo”, “facciamo”, per migliorarne gli esiti.
A tale lavoro di consapevolezza, in questo manuale, si è deciso di dare un nome, proponendo di chiamarlo “Yogging”.
Cosa Gioconda “sentisse”, e avesse “sentito”, pensato e fatto, rispetto alla mancata crescita del suo seno o, come continuava a dirmi lei, circa il suo avere “il petto piatto” [nonostante il confrontarla sulla cosa, chiedendole descrizioni più dettagliate, l’avesse portata a riconoscere che
– “beh, non è che sia proprio piatta e che non sia cresciuto proprio niente, ma è talmente tanta poca roba che non si vede niente, non riempie niente, se non metto un “push up” non mi sta nessun reggiseno!”]
mi sembrava un campo molto interessante da esplorare con lei.
Un seno che non cresce, secondo i propri desideri, può rappresentare per una donna un bel problema, fino a rappresentare una vera e propria “crisi dell’esistenza”, che, se non risolta, può sfociare (a quanto sembra!), anche, in disturbi psichici di varia natura e forma.
– Quella della “crisi dell’esistenza” è un riferimento culturale di straordinario valore, che ritroviamo, in vario modo utilizzato, nel generale campo delle cosiddette scienze e/o discipline umane.
Da un punto di vista antropologico, si parla di “crisi dell’esistenza” ogni qual volta un individuo si ritrova in un momento di passaggio da uno stadio ad un altro della propria esistenza personale e sociale, ad esempio: la nascita, il passaggio dall’infanzia alla pubertà e da questa all’età adulta; lo sposarsi, il diventare genitori, l’invecchiare, l’approssimarsi della morte e la gestione della stessa, per chi rimane.
La crisi è funzione dei cambiamenti cui andiamo incontro, in ogni fase di passaggio da uno stato ad un altro del nostro vivere.
Va da sé che la crisi sia data dalle naturali, soggettive, difficoltà di gestione, d’ordine pratico-materiale, affettivo e psicologico, che ci accompagnano in ogni situazione di cambiamento.
Storicamente, ogni società umana mette a punto e sviluppa un proprio sistema di riti e attività sociali volte ad una positiva gestione di tali “crisi dell’esistenza”, sostenendo ogni singolo individuo nel difficile attraversamento delle stesse.
Da un punto di vista psicologico, possiamo parlare di crisi dell’esistenza ogni qualvolta un individuo si ritrova in una situazione personale problematica, che non sa gestire e che gli procura uno stato emotivo di disagio e di malessere (rabbia, tristezza, ansia, paura, disperazione, ecc. ecc.) più o meno accentuato.
Per la Gestalt, la scuola di pensiero cui principalmente devo la mia formazione in counseling, tali stati di “crisi dell’esistenza” corrispondono, per ogni individuo, alle situazioni di “impasse” del proprio processo di crescita e maturazione personale.
(dal mio “L’esistenza e le sue crisi. Storie di vita e di counseling”, La Rondine, 2018)
Cosa potrebbe accadere a Gioconda, in particolare rispetto al suo disturbo psichico, se questa crisi venisse, da lei stessa risolta, apprendendo nuovi e più funzionali modi di rapportarsi a questa?
Questa era la domanda su cui mi stavo centrando, ragionando su come avviare con lei, il lavoro di consapevolezza che l’avrebbe aiutata a meglio affrontare la sua crisi dell’esistenza, circostanziata dal mancato sviluppo del suo seno.
Allora, dopo il mio primo feedback, chiedo a Gioconda:
– Come ti senti?
– Mi sento meglio. Hai proprio ragione. Non mi spiego come sia possibile sta cosa. Io sono sempre stata, per chi mi conosce, una persona allegra, sorridente, felice, che porta sempre il buon umore, scherzosa, e adesso non riesco più a stare in mezzo alla gente. Il mio ragazzo mi propone di uscire la sera, vedere gente, amici, e io che so che ci saranno anche altre donne, gli dico: no vai tu, io non me la sento. Ma come è possibile questa cosa?! Io non la voglio più. Voglio ritornare normale e invece la mia dottoressa-psicoterapeuta mi dice un sacco di cose brutte, che mi spaventano, ho paura di diventare pazza; la mattina, prima, mi alzavo sparata, mi preparavo e andavo a lavorare, a scuola contenta, felice di quello che facevo, adesso, molte volte non sento la sveglia, arrivo in ritardo, non ho voglia di sistemarmi bene, truccarmi, farmi bella, sono così … e non mi piace per niente!
– Uhmm … ascolta Gioconda, ti dico come la vedo io e cosa immagino di poter fare per te.
Innanzitutto ti dico in che modo il counseling, sulla base della mia esperienza, potrebbe aiutarti.
Come counselor ti aiuterei a trovare migliori modi di gestire la situazioni difficile in cui ti ritrovi, visto che in questa sembra che tu non sappia bene come muoverti. Lo farei senza andare alla ricerca dei perché ti trovi in questa situazione (questa è una cosa che fanno psicoanalisti e psicoterapeuti); per me, come counselor, è importante scoprire da cosa il tuo quadro di difficoltà sia caratterizzato e come tu, insieme a chi ti gira intorno e ne fa parte, ti stai muovendo in esso.
Questo per verificare se e in che modo, tu stessa vi possa intervenire per produrre i cambiamenti che desideri.
Il modo in cui ci muoveremo per fare le nostre scoperte e le nostre verifiche é ciò che caratterizza il counseling.
Quello che cercherò di fare con te sarà di farti sperimentare, nella nostra relazione di counseling, delle vere e proprie tue nuove esperienze personali, in grado di aprirti a nuove conoscenze su quello che ti sta capitando e farti immaginare nuovi modi di affrontarlo, cominciando a sperimentarlo, simbolicamente e immaginariamente, già nella nostra relazione di counseling ed in tutte quelle situazioni che riusciremo ad organizzare con questo stesso proposito.
Che ne dici?
– Mi vuoi proporre degli esperimenti?
– Detto così non mi suona bene; vorrei farti sperimentare, in condizioni di sicurezza, che tu stessa potrai verificare di volta in volta e riconoscere se per te andranno bene, dei nuovi modi di stare e di muoverti nei confronti delle situazioni difficili in cui ti trovi, perché tu possa scoprire se hai possibilità diverse, e più capaci di farti star bene, di quelle che finora hai messo in campo per gestire quello che ti sta succedendo.
Come ti sembra così?
– Sì, sì, io sento proprio il bisogno di cose diverse da quelle che mi stanno proponendo, che mi sembra che non facciano altro che peggiorare la mia situazione, anche se la psicoterapeuta mi dice che è normale, che devo aver pazienza, che ci vuole tempo. Io non ce la faccio. Io voglio re-imparare a stare bene, come son sempre stata. Vabbè le medicine, vabbè la dottoressa-psicoterapeuta, ma io ho bisogno di educazione, di un intervento educativo che mi insegni come fare a stare bene con la gente, soprattutto con le donne.
– Ok Gioconda. Adesso ti chiedo di fare tre bei respiri, di pancia, lunghi lunghi, inspirando bene e buttando, sempre, ben bene tutto il fiato che hai preso e poi mi dici come stai? Come ti senti?
– Mi sento meglio di quando sono venuta, un po’ più fiduciosa di potercela fare a venirne fuori, però Domenico ho paura, ma voglio stare di più con la speranza che quello che mi proporrai di fare mi servirà, anzi voglio crederci!
– Allora ascolta Gioconda, ti propongo di partecipare a un modulo della mia scuola in counseling, che terrò questo lunedì; lo dedicheremo ad un lavoro specifico, che faremo insieme a te, sul racconto che tu farai della tua vicenda, al gruppo degli allievi partecipanti.
Sono fiducioso che quello che verrà fuori possa darti una prima buona mano a stare un po’ meglio e possa servire a me a meglio orientarmi sul cosa fare per aiutarti.
Ci stai?
– Sì, sì. Assolutamente sì.
– Allora ci vediamo lunedì, a scuola, alle 18.30. Il tutto durerà fino alle 21.30, dopo decideremo se e come proseguire.
Gioconda non ha più un tono di voce lamentoso; il suo sguardo mischia tracce di incertezza ed ansia con chiare espressioni di speranza sugli esiti positivi di quanto le sto proponendo e, ancor più, una ferma determinazione a mettersi in gioco e a tentare il tutto per tutto per venire fuori dalla situazione in cui è precipitata.
Io tiro un sospiro di sollievo. Ci ho messo niente ad affezionarmi a questa ragazza e a fare il tifo per lei, perché possa, più in fretta possibile, trovare buoni modi per migliorare lo stato in cui si trova e cominciare a stare meglio.
L’idea di farla venire a scuola l’avevo avuta scommettendo sul fatto che le avrebbe fatto bene raccontarsi ad un uditorio quasi esclusivamente femminile, accogliente, capace di ascoltare e di ascoltarla e di darle dei feedback, che l’avrebbero portata a “sentire” qualcosa di diverso da quanto la stava tormentando e ad attivare in se stessa quei processi di consapevolezza di cui necessitava per intervenire, positivamente, su quello che le era successo e che le stava capitando.
Le sue risposte a quanto sarebbe accaduto a scuola mi avrebbero orientato sull’opportunità di procedere e, nel caso, come, con il lavoro di counseling avviato.
Quest’idea mi dava entusiasmo e buona energia non solo perché confidavo sul fatto che a Gioconda la serata avrebbe fatto bene, anche perché confidavo che avrebbe fatto bene a tutti gli allievi partecipanti, permettendo loro, e a me stesso (con l’atteggiamento tipico del counselor, che si affida agli sviluppi dei processi in corso, assumendosi la responsabilità di parteciparvi attivamente), di imparare qualcosa di nuovo e di importante sul nostro modo di fare counseling, sul suo valore e su quello della vita intera.
Così ci salutiamo, dandoci appuntamento a lunedì 18 novembre.
Subito dopo, chiamo Giulia, mia collega counselor e trainer della scuola, per chiederle di partecipare alla serata. Mi servirà senz’altro il suo apporto femminile, esperto e fidato.
LUNEDÌ 18 NOVEMBRE 2019 (1° gruppo scuola)
Dopo un primo giro di auto-presentazioni e di condivisioni circa lo stato d’animo con cui ci accingiamo a partecipare alla serata, introduco la stessa con una presentazione del lavoro che mi riprometto di condurre.
In sostanza, invito tutti a mettersi in ascolto e ad accogliere quanto Gioconda ci racconterà, pronti a dare i nostri feedback.
Ricordo a tutti che il valore dei nostri feedback risiede principalmente nella nostra capacità di condividere, esprimendolo con cura, il nostro “sentire”, cioè cosa ci siamo accorti di provare, “tenendo con noi” (accogliendo) quanto abbiamo ascoltato; se a questo sentire riusciamo a collegare la comprensione/intuizione circa cosa lo stesso possa significare per noi, in termini di dinamiche esistenziali, non certo di giudizio, e ad esprimerlo (esempio, c’è una bella differenza tra il dire: “mi sono arrabbiato con tua nonna perché è una stronza, avrei proprio voluto che tu la mandassi subito a quel paese” oppure dire: “mi sono accorto di quanto mi arrabbiavo, vedendo come ti trattava tua nonna; questo mi dice che non sopporto che qualcuno venga trattato male ingiustamente e, soprattutto, non sopporto d’essere trattato male, io in primis, da nessuno”), allora il nostro feedback assumerà un valore pieno, di condivisione esperienziale, in grado di offrire la possibilità a chi lo riceve di identificarsi (contingentemente, emotivamente, immaginariamente) nei suoi contenuti e di rielaborare in proprio quell’esperienza e, grazie a questo, accrescere il proprio stato di consapevolezza.
Ricordo a tutti che solo Giulia ed io possiamo confrontare Gioconda, a tutto tondo, invitando tutti gli altri a farle domande solo nel caso in cui qualcosa di ciò che racconta non risulti chiara.
Insomma, Tutti stiamo in ascolto, “assaporando” al meglio il racconto di Gioconda; solo Giulia e io, se dovessimo ritenere utile intervenire, entrando in relazione con Gioconda e con quanto sta raccontando, ci possiamo permettere di farlo.
Alla fine ciascuno dei presenti darà il proprio feedback a Gioconda, rivolgendosi direttamente a lei stessa.
Io che gestisco questa sorta di “laboratorio di formazione partecipata”, interverrò, da counselor e da formatore, su forme e contenuti di questi feedback, secondo il mio senso di opportunità, per correggerli, rielaborarli, integrarli nell’esperienza formativa che stiamo vivendo.
È questa un’indispensabile condizione di sicurezza per Gioconda, cui si evita la possibilità d’essere investita da feedback nocivi, ed è altresì pratica didattica fondamentale per l’insegnamento del counseling, alla nostra Scuola IN Counseling – Lo Specchio Magico Torino.
Gioconda, rivolgendosi all’intero gruppo, si racconta.
Inizia ringraziandomi e ringraziando tutti per l’opportunità che le stiamo dando, dichiarando che, certo, continua a stare male, ma ha cominciato a sentirsi meglio, dall’incontro avuto con me venerdì scorso, dal quale è uscita con un po’ più di fiducia sulle sue possibilità di farcela a riprendersi e a ritornare a fare una vita normale.
Ci dice anche che si sente abbastanza tranquilla di poter raccontarsi, perché le sta piacendo molto e la rassicura come l’abbiamo accolta e come stiamo continuando a farlo, con i nostri sguardi, con le nostre posture, con i toni delle nostre parole.
Racconta chi è e cosa le è accaduto, prima con sua nonna e poi a scuola, con la sua collega e le sue allieve.
È un racconto in cui ricorre la descrizione continua di quanto e come le altre donne la evitino, fingendo di non vederla, allontanandosi quando lei si avvicina, coprendosi tutte quando non possono evitare la sua vicinanza.
Racconta come ha reagito (la paura, l’incredulità, il dispiacere, i suoi e gli altrui giudizi, l’esperienza con la psicoterapeuta, la neurologa, le medicine), come sta reagendo, come è arrivata a questa serata.
Giulia la confronta spesso, chiedendole precisazioni sul suo rapporto con le altre donne e con il suo corpo (osservare questo confronto, stando in ascolto e “diventando” immaginariamente Gioconda, mi fa sospettare importanti dinamiche proiettive, agite inconsapevolmente da Gioconda, nella relazione con le altre donne; sulla “proiezione” vedi cap. 6.5)
Le chiede se ci sono parti di questo che le piacciono (fa riferimento, ad esempio, ai suoi bellissimi capelli, che Giulia invidia, lamentandosi dei propri) e se fa qualcosa per valorizzarle, oltre a riempirsi il reggiseno di pezze e mettersi il “push up”.
Gioconda risponde sempre, in modo puntuale e con una certa disinvoltura:
– Beh sì! So di avere un bel lato B e, quando non stavo male, non mancavo di mettere pantaloni attillati e a vita bassa che lo dimostrassero al meglio. So di avere bei capelli, passavo ore davanti lo specchio a pettinarli. Adesso, invece, non ho testa, non ce la faccio a curarmi, né a cercare di farmi bella, mi sembra che non ne valga per niente la pena.
Io, che la storia di Gioconda già la conoscevo, non traggo nuove indicazioni da ciò che racconta, ma
apprezzo molto il fatto che ci sia e che stia meglio e sono compiaciuto perché Gioconda ha indosso,
nella parte superiore, solo una maglietta (T shirt) e non porti alcun reggiseno (niente “pezze”, né
“push up”), come l’avevo invitata a fare, nel proporle di venire a scuola.
Era questa una richiesta che le avevo fatto venerdì scorso, verso la fine della nostra prima sessione
di Counseling.
Come già accennato, il mio farle counseling ruotava intorno all’intenzione di farle
sperimentare nuovi suoi possibili modi di stare al mondo, perché lei potesse esplorarne i
contenuti emotivi e l’intera fenomenologia (sulla fenomenologia, vedi il capitolo 6.3) e, così
facendo, aprirsi alla possibilità di vivere nuove esperienze in grado di promuovere la sua
crescita personale, producendo quei cambiamenti necessari al suo farla stare meglio.
Alla base del nostro fare counseling c’è il convincimento che le esperienze, che i nostri clienti
faranno in forza del loro attivo partecipare alle nostre relazioni di counseling, siano la leva dei
cambiamenti necessari al miglioramento della loro esistenza, relativamente alle difficoltà personali
che stanno vivendo e sulle quali chiedono il nostro aiuto.
Alla base del nostro fare counseling c’è l’idea che la qualità dell’esistenza, per ciascuno di noi,
dipenda dalle esperienze che ciascuno di noi riesce a vivere.
Alla base del nostro fare counseling poniamo la nostra coscienza del fatto che possiamo
considerare “esperienza”, e cioè accadimento in grado di sostenere o sospendere-bloccare la nostra
crescita ed il nostro benessere, ciò che facciamo dei nostri “vissuti” e con gli stessi.
Alla base del nostro far counseling c’è il sapere che il valore di un’esperienza é sempre una
risultante del modo in cui ciò che è accaduto, stia accadendo o potrà accadere, é contattato da
chi quella stessa esperienza ha vissuto, sta vivendo, si accinge a vivere.
Per questo, alla base del nostro fare counseling poniamo la qualità del contatto che intratteniamo
con il nostro cliente, perché lui stesso ne faccia esperienza, riconoscendolo come modello operativo
possibile, buono e utile, dei propri contatti, con se stesso, con gli altri, con l’ambiente e con la vita
intera.
Nell’esistenza di tutti, particolare rilievo assumono le esperienze vissute relativamente alla gestione
di situazioni critiche di cambiamenti personali, a qualunque livello questi avvengano, siano questi
fisiologici (vedi la pubertà), quelli di un cambiamento del ciclo di vita sociale (finisce la scuola,
bisogna trovarsi un lavoro), quelli della perdita di una persona cara o della fine di una relazione
importante, ecc. ecc.
Gioconda ci portava il caso di una propria, particolarmente critica, esperienza di vita, guarda caso
vissuta nel pieno di una fase di passaggio/cambiamento importante della propria identità fisiologica,
personale e sociale, quello della pubertà.
Insomma un caso, oltre che tipico, specifico di una vera e propria crisi dell’esistenza.
Per chi fa counseling, il fatto che alla propria crisi dell’esistenza, Gioconda potesse aver risposto
anche con una qualche forma di disturbo psichico, nella misura in cui questo non le impediva di
muoversi positivamente alla ricerca di nuove esperienze, in grado di aiutarla a trovare migliori
risposte a quanto le stava succedendo, non poteva essere un impedimento per aiutarla in questa sua
volontà!
Come?
Aiutandola a vivere nuove esperienze, per l’appunto, di cambiamento, circa il modo di vivere il
proprio stato, personale-sociale-relazionale, di persona in crisi rispetto alla mancata crescita del
proprio seno (scopriremo, più avanti, quanto e come la mancata crescita del seno possa essere solo
uno, per quanto tra i più importanti, vissuti critici di Gioconda, caratterizzanti una più grande, vera e
propria, crisi esistenziale, di passaggio d’età biologica, fisiologica, psicologica, sociale, tipicamente
adolescenziale, quale quella del passaggio all’età adulta, con tutti i bisogni di riconoscimento e
affermazione di se stessi che tale passaggio mobilita).
Una prima nuova esperienza Gioconda aveva cominciato a viverla venerdì scorso con me, che:
– l’avevo accolta amorevolmente,
– avevo ascoltato quanto mi raccontava, confrontandola sui relativi sensi (sia come emozioni-sensazioni-sentimenti, sia come significati),
– avevo condiviso il mio “sentire” relativamente a quanto mi raccontava e al modo in cui gli aventi parte sembrava vi partecipassero ed influissero,
– l’avevo introdotta a visioni di bellezza relative a esempi di donne con i seni piccoli, pressoché inesistenti, ma felici e soddisfatte di loro stesse (le ho mostrato un quadro di Kokoschka, disegno di una ragazza con i seni solo pronunciati, dai capezzoli prorompenti, di una bellezza estrema, carica di fascino e di sensualità; le ho ricordato la consistenza dei seni delle “top model”, le ho parlato di mia sorella, una donna realizzata personalmente e socialmente, madre di due figli, che ha allattato e cresciuto felicemente, nonostante prima della gravidanza avesse un seno equiparabile a quello del disegno di Kokoschka e sicuramente non più sviluppato del suo), per indagare come tutto questo la facesse sentire e confrontarla su cosa potesse farsene,
– avevo concluso il nostro primo incontro di counseling prospettandole la possibilità, tutta da verificare, che lei stessa approdasse alla Formazione INN Counseling, come risposta al suo dichiarato interesse di aggiornamento ed arricchimento professionale (ricordo che Gioconda è un insegnante di sostegno) e, per ora soprattutto, come possibile strategia di risoluzione delle proprie difficoltà, basata sulla sua partecipazione ad un’importante esperienza formativa, di medio-lungo periodo, caratterizzata dal lavoro di autoconsapevolezza (alias il socratico “conosci te stesso”); un “lavoro” che avrebbe potuto essere, per lei, leva di quello sviluppo, di quella crescita e di quella maturazione personale, che l’avrebbero portata ad apprendere e fare proprie quelle capacità personali di cui necessitava per risolvere definitivamente le proprie difficoltà e stare finalmente meglio.
Ora, Gioconda, in forza del suo partecipare a questa serata di Formazione IN Counseling, di cosa
poteva fare esperienza?
Vediamo cos’è accaduto.
Il raccontarsi di Gioconda produce, nei presenti, un generale stato d’animo di “compassione”,
partecipazione commossa e affettuosa, ricca di tenerezza e di solidale vicinanza.
Questo stato contagia Gioconda, che si apre ancor più, arricchendo di particolari la sua vicenda.
Dai feedback emerge un quadro i cui “colori” più marcati richiamano al senso di ingiustizia, a
quello del rifiuto, al bisogno di riconoscimento, alla rabbia, alla paura, alla fatica, all’impotenza.
Poi ci sono le allieve con “seni taglia molto forte” che condividono i loro passati problemi, quando
il crescere improvviso e straordinario del loro seno ingenerava in loro difficoltà “gestionali” di
varia natura: la derisione dei compagni di scuola, l’impaccio fisico, la vergogna, la paura di non
andare bene o quella di essere cercate solo per il proprio avere “le tette grosse”.
C’è poco da fare, ogni volta che a scuola mi ritrovo in simili situazioni, mi ritorna in mente quello
che hanno rilevato gli studi antropologici, sull’importanza per gli individui della condivisione
rituale nelle circostanze critiche dell’esistenza.
Gli antropologi ci fanno vedere la valenza di sostegno psicologico delle attività ritualistiche -sociali che accompagnano la vita delle persone durante l’attraversamento delle loro “crisi dell’esistenza”.
Ma le società che loro studiavano erano “semplici”, organizzate intorno al sostegno sociale dei singoli individui; società in cui la forza delle dinamiche socio-culturali e l’adesione, alle stesse, da parte dei singoli, rendevano certo e indiscutibile il “che fare” in ordine ad ogni difficile circostanza esistenziale, individuale.
Questo semplificava di gran lunga la vita di tutti; questo sembrava andar bene a tutti (che certo non
giudicavano la propria vita con i nostro occhi!).
Oggi, che il nostro vivere è sempre più atomizzato (vedi Bauman e la sua visione di “società liquida”), il counseling, e la Formazione IN Counseling, hanno, anche, il valore di mantenere viva, negli individui che gli si rivolgono, la forza del proprio vivere sociale, in attesa (e alla ricerca) di produrre qualcosa di meglio, culturalmente e socialmente.
Il “caso Gioconda”, di tutto ciò, é un caso emblematico.
Le condivisioni producono in lei un certo stato di fiducia sulle proprie possibilità di “cavarsi
d’impaccio”, misto ad un cauto ottimismo relativo alla propria possibilità di accettare, anche nel
confronto con le altre donne, le dimensioni del proprio seno.
Uno degli aspetti che Gioconda dichiara essere stato per lei particolarmente incoraggiante è stato il
poter condividere, abbastanza tranquillamente, uno spazio ristretto con altre donne che non
cercavano di ritrarsi da lei, ma che anzi le stavano vicino (fisicamente ed emotivamente), e che,
soprattutto, non cercassero in tutti i modi di coprirsi il petto fino al mento, trasmettendole timore.
Un’esercitazione che le ho proposto, quella di sedersi di fronte a Giulia, che, con postura
“pettoruta”, ma con fare rassicurante, la invitava a guardarle il seno, benché coperto dai vestiti, e a
dichiarare come si sentisse, ha ulteriormente permesso a Gioconda di riprendere contatto con le sue
possibilità di guardare le altre donne, senza timori eccessivi di perdita del proprio autocontrollo.
Alla fine, lei stessa ha sottolineato quanto la sua possibilità di muoversi e mettersi in gioco fosse
dipesa dal ritrovarsi in un contesto di cui palesi erano le valenze di protezione, accoglienza e
sostegno a stare nelle proprie difficoltà, e quanto questo l’avesse aiutata a sperimentarsi nel
rapporto con altre donne, anche solo permettendosi quanto un tempo le era possibile fare, seppure
con difficoltà e grazie ad accorgimenti vari.
Ma il partecipare a questa successione di sperimentazioni, esplorandone i contenuti emotivi, di
senso e di comportamento, il farlo stando in ascolto, non smetteva di muovere in me una strana
energia, amplificata da un crescere continuo della mia curiosità circa il cosa questo volesse dire e
comportare per me.
Così mi rivolgo a Gioconda e le chiedo:
– Scusa Gioconda, ci hai detto che Lucia (la collega sul cui decolté cadde malauguratamente il tuo sguardo), quando vi incrociate nei corridoi, tira diritto facendo finta di non vederti. Ma tu fai qualcosa per cercare di contattarla? Non so, tu provi a salutarla cercando il suo sguardo?
– Ma, veramente, da quando a settembre è iniziato il nuovo anno scolastico, non siamo più assegnate alla stessa classe, quindi non abbiamo più occasione di scambi da colleganza professionale. Facciamo parte del corpo docente dello stesso istituto scolastico, possiamo incontrarci occasionalmente nei corridoi o in sala insegnanti. Io ho iniziato l’anno scolastico preoccupata che lei ce l’avesse con me e non me la sono sentita di cercare occasioni per stare con lei, anzi, devo dire che ho sempre cercato di evitarla, cambiando strada quando la vedevo da lontano, o girandomi di spalle quando ero in sala insegnanti e arrivava lei.
– Quindi Gioconda mi stai dicendo che hai cominciato tu ad evitarla e a far finta di non vederla? Mi stai dicendo che sei tu che la eviti e fai il possibile per non farti vedere?
– Beh sì. In effetti sì!
Questo dialogo apre una prospettiva di indagine particolarmente importante sulla possibilità che
Gioconda sia “incagliata” in una delle più classiche “interruzioni di contatto” (di consapevolezza
personale circa il cosa si stia facendo nella relazione con l’altro), già trattate in questo manuale
(vedi cap. 6.5).
Mi riferisco, chiaramente, alla “proiezione”, quel vedere negli altri ciò che riguarda/facciamo noi
stessi, senza nemmeno immaginare che lo stiamo facendo proprio per impedirci di riconoscerlo
come “roba nostra” ed essere quindi costretti a “farci i conti”, sobbarcandoci i carichi di
fatica/sofferenza che questo comporterebbe.
Chi, a qualunque titolo (ma mi riferisco soprattutto ad alcuni psicologi di mia conoscenza),
occupandosi professionalmente di dinamiche relazionali-comportamentali-psicologiche, volesse
considerare proprio dominio specifico il poter disquisire di “proiezione” (e/o cose simili),
arrogandosene l’esclusiva possibilità professionale di “lavorarne” le declinazioni pratiche, messe in
atto da qualsivoglia tipologia di persona più o meno sofferente o in difficoltà relazionali, anche per
questa propria attitudine a “proiettare” sugli altri parti non riconosciute di se medesimo, potrebbe
cominciare col prendersela, ad esempio, con Gesù Cristo, che per primo ci ha messo in guardia (dal
vangelo secondo Luca 18,9-14) contro l’abitudine a vedere il male nell’altro e non in noi (“Perché
guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”).
Scherzi a parte, confrontata su questa possibilità, e cioè che più che essere la sua collega a evitarla,
potesse essere lei a farlo, ottenendo in risposta una stessa “paga”, Gioconda spalanca la bocca in
un’espressione di avvincente sorpresa.
– Ma … se lo faccio con lei, potrei farlo anche con le mie allieve? Cioè, potrei essere io che in qualche modo mi immagino che siano loro ad evitarmi, a tirarsi indietro, a coprirsi, cioè vedo in loro quello che faccio io?!
– Ma … io preferisco pensare che qualcosa facciano anche loro, ma lo facciano in risposta a quello che fai tu. Per questo trovo più interessante concentrarsi su quello che facciamo noi, piuttosto che su quello che fanno gli altri, scommettendo sul fatto che se scopriamo cosa facciamo noi che non produce niente di buono e proviamo a cambiarlo, se ci riusciamo, poi cambiano anche gli altri.
La serata è ormai alla fine e, come consuetudine, concludiamo con un giro di feedback finali, sugli
esiti del nostro “esserci stati”, durante tutti i lavori di questo nostro modo, partecipato, di fare Formazione IN Counseling.
Siamo tutti contenti dell’esperienza vissuta, soddisfatti per quanto appreso e fiduciosi che Gioconda proseguirà con buoni sviluppi il lavoro con noi.
Dal canto mio, ringrazio e saluto tutti, proponendo a Gioconda di vederci, in sessione singola, il
giorno dopo, per tirare le somme di quanto fatto e decidere come proseguire.
Gioconda acconsente con entusiasmo!
Io sto con quell’energia che mi si muove dentro, che mi dice che c’è qualcosa in circolo, di importante, che ancora non riesco a decifrare.
Mi affido al processo, che poi vuol dire che mi riprometto di restare concentrato, in ascolto di tutto
ciò che sento e di rifletterci su per trarne i migliori orientamenti sul da farsi, certo che da questa
storia il “più bello” debba ancora venir fuori!
MARTEDÌ, 19 NOVEMBRE 2019 (2° counseling)
Ho appuntamento con Gioconda alle 16.30, ma io ho cominciato a “stare con lei” in piena notte,
tra ieri e oggi, agitandomi nel sonno, svegliandomi a più riprese, ritrovandomi a pensare a lei e a
cosa fosse quell’energia che mi si muoveva dentro.
Ogni volta che mi svegliavo, mi mettevo in ascolto, per non perdermi dietro gli arrovellamenti
mentali che rischiavo.
Prestavo attenzione a come mi sentivo e a cosa sentivo.
A un certo punto, saranno state le cinque del mattino, ho una sorta di “illuminazione”.
Il mio lavorio consisteva sostanzialmente nel calarmi, immaginariamente, nei panni di Gioconda,
attraversarne le vicissitudini prestando attenzione a come mi sentivo ad essere Gioconda, in quello
che le era capitato, dal sorbirsi le contumelie della nonna, fino all’aver paura di guardare le altre
donne.
Il tutto mi sforzavo di metterlo in collegamento con quella sua dinamica comportamentale, di tipo
proiettivo, che Gioconda aveva messo in mostra.
Il disagio psichico/comportamentale di Gioconda si declinava nel suo non riuscire a guardare le
altre donne, con la paura che lo sguardo le cadesse sui loro seni.
Ma era lei ad avere problemi con il proprio seno, non certo le altre donne.
Era lei che era stata oggetto di uno sguardo malevolo, sul proprio seno che non cresceva.
Era lei che aveva sofferto a essere guardata.
La sofferenza d’essere guardati si chiama vergogna!
Per conoscerla bisogna averla provata, qualcuno deve averci detto che quello che provavamo era
vergogna, così che, nel riprovarla, poi la si riconosce.
Mi stava accadendo proprio questo.
All’improvviso mi accorsi di provare vergogna.
A furia di “stare” con Gioconda, a furia di “essere” lei, all’improvviso contatto la mia vergogna, di
quando ragazzino non volevo essere visto mentre mi denudavo per mettermi il costume da bagno.
Ed ecco l’ “illuminazione”: Gioconda si vergognava delle sue tette, perché aveva “introiettato” il
punto di vista di sua nonna, che le diceva che non andavano bene e, così facendo, induceva in lei il
senso, fisico-emotivo-mentale, dell’essere rifiutata, proprio da chi maggiormente se ne prendeva
cura. Bruttissima storia!
Così Gioconda aveva passato la seconda metà della sua vita (mica poco!) con la paura d’essere
rifiutata, ad essere vista, con occhi puntati sul seno.
Se non fosse stata vista, non sarebbe stata rifiutata, non avrebbe provato vergogna.
Non potendo impedire, né chiedere, alle altre donne di guardarla, chiedeva quindi a se stessa di non
fare a loro quello che non voleva che loro facessero a lei (“retroflessione”, vedi cap.6.5).
Vietandosi un’azione sostanzialmente impossibile, quella di guardare le altre donne, si cacciava in
un corto circuito emotivo/comportamentale che le impediva di vivere, normalmente, la propria vita.
Questa era stata la mia “illuminazione”; un’intuizione improvvisa, una visione nitida emersa dal
risentire la vergogna di cui avevo fatto esperienza.
Potenza dell’ “Ascolto”!
Una “potenza” che possiamo acquisire e fare nostra, beneficiandone degli effetti, imparando
a utilizzarli e a gestirli nelle nostre relazioni di counseling, imparando ad “Ascoltare”,
facendone esperienza, esercitandoci ed allenandoci all’ “Ascolto”, sotto la guida di maestri
esperti, che è ciò che qualifica la didattica della Formazione IN Counseling.
Imparando ad ascoltare, e a utilizzare le funzioni dell’ “Ascolto”, ci apriamo alla possibilità di un
funzionamento analogico delle nostre facoltà mentali, che, valorizzando le nostre potenzialità creative, ci posiziona in “modalità intuitiva”, una modalità pre-logica, capace di produrre
collegamenti che saranno, sì, riconosciuti a posteriori, ma non utilizzati come procedimento per arrivare alla scoperta di ciò che stiamo cercando.
Una logica che spiega, dopo, ciò che si è intuitivamente scoperto, prima, in forza di un contagio da
Contatto “azione-emozione-riflessione” e non in forza di una interpretazione dovuta all’applicazione logica di presupposti teorici ricercati, e fatalmente riscontrati, in ciò che stiamo analizzando.
La mia eccitazione era alle stelle. Dovevo mettere alla prova la mia “illuminazione”.
Come far sperimentare a Gioconda la sua possibilità d’essere vista, con occhi puntati sul seno, da
sua nonna senza provare, per questo, vergogna?! Aprendosi così alla possibilità di radicare in se
stessa un’esperienza diversa di quella che, probabilmente, l’aveva bloccata (“fissata”?!) in quella
condizione di paura e ripetitività comportamentale, diagnosticata come “disturbo di tipo ossessivo-
compulsivo”?
Ribadisco che alla base del nostro fare counseling c’è l’idea che ciò che siamo-facciamo-pensiamo-
proviamo dipenda, molto, dalle esperienze che viviamo.
Se non “funzioniamo adeguatamente”, se non riusciamo cioè a vivere la nostra vita, beneficiando
di quelle soddisfazioni che il vivere stesso ci offre, allora abbiamo bisogno di vivere nuove
esperienze, in grado di sostituirsi a quelle precedenti, che ci hanno “bloccato” nelle situazioni di
malessere in cui siamo incagliati (ed è chiaro che qui parliamo di malessere esistenziale, non di
forme di malattia o disturbo mentale).
Insomma, abbiamo bisogno di fare nuove e più costruttive esperienze di crescita personale, che ci
permetteranno di rituffarci nel naturale, spontaneo, fluire della nostra vita.
Per “sganciarci” dai condizionamenti delle “cattive”, vecchie, esperienze, bisogna fare esperienze nuove e belle, cui “agganciarsi”, che le sostituiscano.
Quale nuova, sostitutiva, buona e bella esperienza “costruire” insieme a Gioconda, per far sì che lei
vi si agganci, sganciandosi da quelle vecchie, brutte e cattive?
Questa era la questione cui adesso ero agganciato io.
Prima di raccontare cosa ho progettato, voglio ancora fare una digressione che ne presenti le
ragioni.
Dagli autori delle tragedie greche (costruite drammaticamente affinché producessero negli spettatori
effetti catartici) in avanti, chiunque si sia occupato di sentimento e comportamento umano ha
avuto ben chiaro quanto la mente possa portarci ad identificazioni che non distinguono i nostri
vissuti immaginari da quelli reali, al punto di farci provare identiche emozioni-sensazioni-
sentimenti per vissuti praticati, indifferentemente, su di un piano immaginario o su uno reale.
Lo sapeva bene Aristotele, nel suo parlarci di catarsi come quell’esperienza di riequilibrio degli eccessi passionali suscitati nell’animo dello spettatore dalla rappresentazione teatrale, tragica.
Lo sappiamo noi tutti, in generale, che ci riferiamo alla catarsi come a quella esperienza di liberazione, degli aspetti negativi della realtà delle nostre esistenze quotidiane, ottenuta in forza del rapporto, di produzione/fruizione, che intratteniamo con un’opera d’arte o con accadimenti straordinari, che come le grandi produzioni artistiche, sono in grado di “rapirci l’animo”, conducendoci a cambiamenti improvvisi e inaspettati della nostra vita.
L’esperienza catartica induce all’accettazione dell’ineluttabilità/utilità della sofferenza, che a noi tutti capita di vivere, giovani , vecchi, uomini, donne, poveri, ricchi, famosi, sconosciuti a tutti, che si sia!
Nel nostro fare counseling e ancor più nel nostro fare Formazione IN Counseling, sperimentiamo in più riprese quanto il “negativo” sia una caratteristica propria dell’esperienza di tutti, che tutti possono accettare.
Per questo rivendichiamo il fatto che il counseling sia, innanzitutto, un “fare arte” o, almeno, un riprodurne le valenze, addirittura rafforzandole.
Il counselor è un facilitatore esistenziale.
Facilita la rivisitazione delle situazioni di crisi esistenziali del propri clienti proponendo, ad hoc e creativamente, esercitazioni/sperimentazioni varie.
Facciamo counseling proponendo giochi di consapevolezza emotiva e corporea; conducendo giochi di ruolo e drammatizzazioni, aiutando i nostri clienti a scoprire nuovi e più funzionali modi per “stare” con, e gestire, le particolari difficoltà del vivere, nelle quali si stanno dibattendo.
Il counselor è un facilitatore esistenziale.
Facilita la rielaborazione di stili di pensiero e di comportamento, di modelli ideali e competenze cognitive, di valutazioni del presente e progettazioni del futuro; lo fa valorizzando le potenzialità soggettive, che lo stare nella relazione di counseling stessa mette in luce e riorganizza cognitivamente.
Alla base del nostro fare counseling c’è l’intenzione di “costruire esperienze”.
Ora, poiché un’esperienza per essere tale deve integrare, di un vissuto, ciò che accade nei tre piani,
dell’agire, del pensare, del sentire, che lo hanno intessuto [perché un’esperienza sia avvenuta,
qualcosa dovrà essere stata fatta; qualcosa dovrà essere stata pensata; qualcosa dovrà essere stata
sentita; e tutto quanto dovrà essere stato messo insieme, in qualche modo!] e poiché la mente può
non distinguere, per farci fare un’esperienza, tra vissuti immaginari e reali, il mio progetto di
esperienza da far vivere a Gioconda è stato quello di farle drammatizzare un dialogo immaginario
con sua nonna, che rappresentasse per lei una sorta di rampa di lancio di uno sviluppo successivo di
esperienze, sempre più reali, che avrebbe portato avanti, anche perché stimolata in tal senso da
quanto sarebbe andata apprendendo, continuando a fare counseling con me e/o formazione in
counseling, nella mia scuola.
Volevo farle inscenare un dialogo in cui lei, petto in fuori e forme non artefatte del seno bene in
vista, confrontasse sua nonna dichiarandole a cuore e mente aperta i propri sentimenti ed i propri
pensieri riguardanti il proprio seno, il modo in cui era/non era cresciuto, ciò che aveva
comportato per lei il modo in cui era stata trattata da questa nonna e gli effetti che la cosa aveva
prodotto in lei, per arrivare a concludere dichiarandole cosa si riprometteva di fare, sia
relativamente al proprio seno, sia rispetto al suo rapporto con questa stessa sua nonna.
Mi ero preparato anche un altro, sostitutivo (nel caso non se la fosse sentita di drammatizzare il
dialogo immaginario con su nonna) o aggiuntivo, esercizio da fare con Gioconda: chiederle di
mettersi in ascolto, mentre le leggevo un brano tratto da un romanzo erotico, in cui si decantava il
seno non cresciuto di un’incantevole ragazza, oggetto di ardite brame amorose.
L’avrei poi confrontata su sensazioni, emozioni, sentimenti e pensieri avuti, in relazione al suo stare
in ascolto di quella lettura.
Insomma ne avevo di “carne da cucinare”!
Con in testa un quadro chiaro di come muovermi con Gioconda, chiamo Giulia.
Voglio sentire le sue impressioni sulla serata, sapere da lei se ha qualche idea sul come muoversi
con Gioconda, confrontarmi su quanto mi riprometto di fare.
Anche Giulia stava per chiamarmi, curiosa di sapere, desiderosa di dire.
Condividiamo il piacere per la serata e la gratitudine d’essercela offerta, reciprocamente.
Giulia mi confida il suo sospetto che Gioconda stia facendo i conti con qualche sua istanza
omosessuale, mal digerita, prepotentemente riemersa.
Io la prendo in giro, dicendole che questo è un modo di procedere tipico degli psicologi: quello di
interpretare, muovendosi alla ricerca di cause, che loro stessi preordinano e che, fatalmente,
finiscono col riscontrare.
Le ricordo che Gioconda stessa, la sera prima aveva, senza che nessuno gli e lo chiedesse, smentito
questa ipotesi, già affrontata con la sua psicoterapeuta, argomentando che, pur riconoscendo la
possibilità di naturali istanze omosessuali, presenti in tutti, lei non se le riconosceva attive, per il
fatto di accorgersi, continuamente, di quanto le piacessero gli uomini.
Le racconto di quanto, invece, è accaduto a me.
Le parlo dell’energia che mi gira dentro, della mia notte quasi insonne e delle intuizioni che ho
avuto, descrivendole il rapporto tra queste ed il mio “stare in ascolto, diventando Gioconda”.
Le racconto di quanto intendo fare con lei, nel pomeriggio, anticipandole che se la cosa dovesse
andare bene, proporrò a Gioconda, come sviluppo della nostra relazione di counseling, di
partecipare al prossimo weekend di formazione in counseling, che terrò questo fine settimana a
scuola, considerando che il tema in programma (la competizione), guarda caso, potrebbe essere una
questione il cui approfondimento potrebbe fare particolarmente bene a Gioconda.
Giulia si dice d’accordo. Si complimenta con me. Ci salutiamo contenti.
Gioconda arriva puntuale, allegra e sorridente.
Ci salutiamo abbracciandoci, contenti di rivederci.
Che differenza dal primo incontro!
Sono passati solo quattro giorni, una sessione di counseling e una sua partecipazione ad un modulo
scuola di Formazione IN Counseling, di tre ore, e Gioconda sembra un’altra.
Certo, sta continuando a prendere le medicine, il suo “disturbo” è ancora fonte di apprensione e di
preoccupazione, ma questa mattina, a scuola, per la prima volta da quel giorno di maggio, da
quell’occhiata maledetta sul decolté di Lucia, per la prima volta è riuscita a reggere la vicinanza con
le sue allieve, è riuscita a sostenerne gli sguardi, è riuscita a contenere la paura, comunque presente,
di non riuscire a farcela a svolgere il proprio lavoro con loro, scegliendo di tenersele vicine, invece
di rifugiarsi a far finta di correggere compiti, nel banco più isolato della classe.
Gioconda mi racconta entusiasta tutto questo, facendolo seguire dalla dichiarazione di non volere
abbassare la guardia, perché teme che questo miglioramento improvviso possa essere solo un
“fuoco di paglia”, che potrebbe consumarsi in fretta e farla riprecipitare nei suoi tormenti.
Mi dice che ha sentito i suoi familiari, sua sorella e suo fratello, entrambi si sono raccomandati che
non smettesse l’assunzione dei farmaci, che continuasse ad andare dalla dottoressa.
In particolare, suo fratello, laureato in psicologia, ma non occupato professionalmente come
psicologo, le ricorda che gli psicologi non vedono di buon occhio noi counselor ed il nostro fare
counseling, si raccomanda quindi di stare attenta, ma si dichiara comunque contento di sentire, ed
accorgersi, che lei stia meglio.
Gioconda si leva il giaccone; è vestita con una sobria eleganza.
Pantaloni e giacca, indossa una maglia “simil camicia”, girocollo di raso, sotto la quale intuisco il suo reggiseno “push up”.
Ci sediamo nelle poltrone dello studio, ma protesi l’uno verso l’altra, entrambi.
Le prendo le mani.
– Allora Gioconda, che bello vederti così sorridente!
– Sì. Guarda mi sento meglio. Stamattina è andata molto meglio. Quasi una giornata di scuola normale. Dico quasi perché sto sempre un po’ in allarme, ma la cosa bella è che poi risulta un falso allarme. Sono riuscita a stare vicino alle mie allieve, ad aiutarle a fare i compiti, senza che si ritraessero o mi guardassero male.
– Beh … mi sembra che neanche tu ti sia ritratta o le abbia guardate male. O no?
– No. No. Certo che no. Cioè, voglio dire sì, certo che non le ho guardate male, né mi sono allontanata. Sono stata con loro ed è stato bellissimo, mi sembrava di rinascere.
Lascio le mani di Gioconda e mi accomodo in poltrona, appoggiandomi allo schienale, con le gambe accavallate.
Anche Gioconda si accomoda meglio in poltrona, appoggiandosi schiena e braccia, con le mani
aperte sulle gambe.
– Allora Gioconda, vuoi dirmi ancora qualcosa su ieri sera?
– Mah, direi che sono molto contenta di essere venuta, m’è servito farlo. Solo in quella situazione avrei potuto reggere che qualcuna si levasse il maglione al mio fianco e rimanesse in magliettina tutto il tempo, vicino a me, come se niente fosse. Poi con quel po’ po’ di seno!
Mi è piaciuto tanto come mi guardavano tutte e m’è servito sentire le storie di ML. e T., con i problemi che hanno avuto per avere le tette grandi.
Poi, l’esercizio con Giulia, che mi chiedeva di guardarla tutta e in particolare sul petto …
Insomma, è stato bello, m’è servito molto a provare un senso di normalità, in quello che facevo, in quello che facevano le altre. Ti devo dire proprio grazie!
È proprio questo di cui ho bisogno. Ho bisogno di interventi di tipo educativo, che mi insegnino come fare.
– Gioconda preferirei che tu stessi più con l’idea di un tuo “imparare” piuttosto che con quella di un tuo ricevere insegnamenti. Ma lo vedremo meglio.
Gioconda è una ragazza sveglia. Ha buona volontà e cultura di base. Ha capacità di comprensione e di analisi più che buone, anzi ottime.
Questo mi ispira a raccontarle, per filo e per segno, cosa mi è accaduto stanotte, cosa intendo
proporle di fare, perché e come ci sono arrivato.
Per me è anche un modo per parlarle di quella che io considero “l’anima del counseling” (l’ascolto
e i suoi correlati, di spirito e di declinazioni pratiche), sapendo di parlarle di una materia a lei
molto cara, sulla quale nutre curiosità professionali e desideri personali di approfondimento.
Così Gioconda acconsente, di buon grado, di mettere in atto il suo dialogo immaginario con sua
nonna.
La prima indicazione pratica che le do è quella di togliersi il reggiseno “push up” che indossa,
perché dovrà rivolgersi, seppur immaginariamente a sua nonna, comunque “a petto in fuori”, con
una postura che non nasconda le forme dei suoi seni, anzi le dimostri il più possibile.
Quindi esco dalla stanza perché lei possa procedere, agevolmente, al suo risistemarsi alla bisogna.
Quando rientro Gioconda ha indosso una canottierina adattissima alla situazione, che fascia le
forme del suo seno.
Come avevo immaginato, Gioconda non ha il petto piatto.
L’evidenza che il suo abbigliamento mette in mostra è certamente quella di un seno molto piccolo,
appena pronunciato, che, per la mia esperienza di vita, però, è quello comune ad una grande
quantità di donne, la cui natura ha voluto provvedere in quel modo, magari scontentandone molte,
certamente facendone felici altre (penso, ad esempio, alle danzatrici).
Chiedo a Gioconda: “come ti senti?”.
Ciò di cui mi accorgo è un suo certo grado di buona eccitazione, per quello che si sta accingendo a
fare, e di curiosità, per quello che potrà risultarne.
Anch’io sono mosso da un certo grado di buona eccitazione, ma nel mio caso la collego tutta alla
speranza che qualcosa di buono accada.
– bene! lo voglio fare, ma io con mia nonna parlo solo in napoletano
– non ti preoccupare, non c’è problema, io il napoletano lo capisco.
Invito Gioconda a chiudere gli occhi, assumere una postura aperta e protesa in avanti, sedendosi in
punta della poltrona, e di dire a sua nonna tutto ciò che le ha comportato il modo in cui lei l’ha
trattata, per via delle sue tette che non crescevano, di dirle soprattutto cosa pensa lei stessa del suo
seno e cosa intende fare a proposito dello stesso, cercando d’essere il più fiera possibile di sé.
Quello che adesso riporto è quanto Gioconda ha detto a sua nonna.
Lo faccio in italiano, perché il napoletano lo capisco (abbastanza), ma non so per niente scriverlo.
– Senti nonna tu non puoi sapere il male che mi hai fatto, con tutte quelle storie sulle mie tette, che non crescevano e che per questo non valevo niente come donna. Secondo te dovevo sempre fare qualcosa, mettermi le pezze, nasconderne le fattezze, fare cure ormonali.
Mi hai sempre fatta sentire sbagliata e invece guarda, io non ho niente che non va, le mie tette vanno bene così come sono e se secondo te non è così non me ne importa niente, devono andare bene a me e non a te. Io voglio smetterla di darti credito, di pensare che tu possa avere ragione. Sono stata fin troppo male per questo e non voglio più che ricapiti. Per questo te l’ho già detto e te lo ripeto: non voglio avere più niente a che fare con te, non voglio più vederti, per me non esisti più. Io posso vivere bene la mia vita ed essere contenta con le tette che ho, senza nasconderle, senza fare di tutto per farle apparire più grandi di quelle che sono. Voglio essere orgogliosa di loro e di me e farò di tutto per riuscirci.
Quello dell’invitarla a essere fiera di sé è un’indicazione, che ho voluto darle, per farle
sperimentare il contatto con una parte di se stessa che io avevo avuto modo di conoscere, perché,
sin dal primo incontro che avevamo avuto, a tratti manifestava, senza, però, riuscire mai a farsene
qualcosa di buono, tenendola con sé, dandole valore e “agganciandovisi”.
Volevo vedere come, quella parte di donna fiera, forte, coraggiosa e orgogliosa di sé, richiamandola
in scena, l’avrebbe occupata e quali possibilità avesse Gioconda di identificarcisi maggiormente e
sfruttarla a proprio beneficio.
Gioconda era evidentemente molto più in contatto con quella parte di sé che provava vergogna.
Era evidentemente, a sua “insaputa”, identificata col modello culturale e sentimentale incarnato
dalla nonna, di questo aveva piena “familiarità”.
Noi tutti sappiamo quanto, per un individuo, ciò che gli è familiare possa rappresentare la misura
del “Bello”, del “Buono” e del “Giusto” (secoli di storia dell’umanità e di studi sull’uomo stanno a
testimoniarlo!) e quanto, quindi, la “familiarità” di un’idea, di un comportamento e di un sentimento
possa essere condizionante nell’esistenza di una persona.
La mia intenzione era quella di far sì che Gioconda “familiarizzasse”, sempre più ed in modi
diversi, con altre parti di sé, privilegiando quelle forti, coraggiose, volitive, caratterizzate da
“sensibilità” diverse da quelle di cui sembrava essere diventata succube.
Quanto più vi avesse familiarizzato, facendone esperienza positiva, di belle sensazioni, di piacevoli
emozioni, di rincuoranti sentimenti e di soddisfacenti comportamenti, tanto più sarebbe riuscita a
ritrovare un proprio equilibrio esistenziale, sul quale confidare per ritornare a vivere felicemente.
Io credo che questa potrebbe essere vista come una delle intenzioni principali del counseling.
Il riuscire a mettere in atto, positivamente, questa intenzione, nelle proprie relazioni di counseling,
è, molto probabilmente, ciò che più qualifica il valore professionale di un counselor!
Entrando nei meandri delle dinamiche psico-analitiche, ma solo per specificare perché noi
counselor con queste non si abbia nulla a che fare, riferendoci alla famigerata triade “Es-Io-
Superio”, di freudiana memoria, sarà senz’altro chiaro a tutti quanto, noi counselor, nella
relazione con i nostri clienti, interveniamo esclusivamente sulle “funzioni dell’Io”, esattamente
come chiunque si occupi di educazione, insegnamento, coaching, assistenza sociale, ecc. ecc.
Il fatto che così facendo, omeostaticamente e naturalmente, il nostro fare counseling produca a
cascata negli altri due registri, dell’ “Es” e del “Superio”, effetti di “riaggiustamento” positivo,
come non considerarlo un qualcosa di “Buono e Giusto”?!
Risposta: “basta non essere mossi, come alcuni psicologi, dall’intenzione di affermarsi professionalmente impedendo ad altri professionisti di svolgere liberamente il proprio lavoro!”
Ma, abbandonando immediatamente ogni istanza polemica con chi fa la guerra a noi counselor,
ritorniamo con Gioconda.
Il cipiglio con cui Gioconda aveva parlato a sua nonna mi aveva sorpreso.
Non mi aspettavo tanta “verve”.
– Accipicchia Gioconda che veemenza! Te la senti di “diventare” tua nonna e di rispondere a quello che le hai detto?
– In che senso?
– Nel senso che l’esercizio potrebbe continuare, se tu riuscissi a interpretare la parte di tua nonna che risponde a quello che le hai appena detto, ma non per come pensavi fosse il suo pensiero prima di quello che le hai appena detto, ma “diventando” lei che ascolta quello che le hai detto e, comprendendolo, ti risponde!
– Ma lei non lo comprenderebbe in alcun modo, si metterebbe solo a gridare, insultandomi. Ho già provato a parlare con lei, non è servito a nulla e infatti le ho già detto che di lei non volevo sapere più nulla ed è tanto tempo ormai che non la vado più a trovare e con lei non ci parlo.
Allora non insisto. Le chiedo come si è sentita nel dire quelle cose a sua nonna.
– Bene! M’è piaciuto. Mi sono sfogata. Io quelle cose vorrei pensarle veramente!
– Gioconda mi stai dicendo che le hai dette ma non ci credi?!
– Si e no. Credo che così dovrebbe essere. Così vorrei che fosse. Così voglio sforzarmi di riuscire a essere e a fare. Ma ancora non ci riesco.
– Ok Gioconda, magari un poco alla volta, se non pretendi di avere tutto e subito, ma impari a dar valore ai progressi, anche piccoli, che poco alla volta riesci a fare, magari fra non molto scopri che hai fatto tanta strada!
– Sì. Sì. Lo voglio fare.
– Come ti sei sentita a stare con le tette protese verso tua nonna?
– Bene! M’ha dato un senso di libertà, che mi piacerebbe provare sempre, ma che so di non poterlo fare, perché nelle situazioni normali della mia vita, non mi sento a mio agio con questo mio seno. Ad esempio, già col “push up” non è che mi cadano bene tutti i vestiti, figuriamoci senza!
– Va bene Gioconda, ma che male c’è se, alla bisogna, ricorriamo ad opportuni accorgimenti per farci più belli e stare meglio, con noi stessi, in mezzo agli altri?! Quello che voglio dire è che, se ti andasse d’indossare un abito che ti “vestirebbe meglio” se avessi più tette, che male ci sarebbe se ti mettessi un “push up”?! Ma ci saranno pure circostanze in cui puoi metterti una magliettina qualunque indosso, senza niente sotto, e sentirti bella e a tuo agio comunque! Non sarai mica come quegli stronzi di Libero, il giornale, che hanno praticamente dato della puttana a Carola (la capitana della “Sea Watch”, la nave umanitaria che salvava i naufraghi nel mare Mediterraneo) perché si è presentata in tribunale, d’estate e con un caldo torrido, con indosso una semplice T shirt, che lasciava intravvedere il puntare dei suoi capezzoli sotto la sua magliettina?! Cavolo roba da medio evo! Non sarò mica io a dover sostenere con te la causa dell’emancipazione femminile?!
L’attenzione che voglio richiamare, relativamente a questo dialogo, che sto riportando, è sull’
“esserci” di entrambi, Gioconda ed io.
“Esserci”, per un counselor che fa counseling, vuol dire saper mettersi in gioco, nella relazione con
il proprio cliente, valorizzando quanto di se stesso può servire a confrontare il proprio cliente, per
permettergli di esplorare diversi punti di vista, diversi valori, diverse emozioni, diverse dimensioni
culturali e sentimentali da quelle che lo stanno malamente influenzando, offrendogli così
l’opportunità di “assaggiare” qualcosa di diverso rispetto a ciò che di “velenoso” si sta nutrendo e
avere così la possibilità di scegliere qualcos’altro, farne esperienza e, magari, scoprendo quanto
possa essere più sano, nutrirsene.
“Esserci”, per un counselor, vuol dire anche permettersi di invitare il proprio cliente ad assumersi le
proprie responsabilità circa quello che sta facendo.
Cosa stava facendo Gioconda?
Stava “spostando” la sua indisponibilità ad accettare il proprio seno, come parte integrante di sé, sul
piano del giudizio indiscutibile che con quel suo stesso seno certi vestiti da donna non potessero
starle bene.
In questo modo, invece di “stare con il proprio sentire”, facendovi i conti (cosa evidentemente
troppo faticosa? troppo spaventosa? troppo cosa da fare?!), poteva “stare sul piano tutto più
agevolmente mentale del disquisire su ovvietà incontrovertibili”, che non potevano far altro che
confermare l’ovvietà del suo disagio e l’impossibilità di porvi rimedio!
Forse anche l’avere un problema può essere un modo che funziona, per darsi valore?!
Forse avvicinarsi alla sua soluzione può, quindi, non piacerci?
Erano questi gli interrogativi che cominciavo a mettere a fuoco.
Il mio problema, a questo punto, era come confrontare Gioconda sugli stessi, con modalità che
lasciassero a lei stessa piena libertà ed indipendenza di riconoscerne il valore e ricercarne risposte.
– Ascolta Gioconda, posso leggerti un brano tratto da un famoso romanzo erotico in cui la protagonista, incantata dalle forme efebiche di una sua amica, perde la testa per lei e la trascina in un lussurioso rapporto sessuale?
Sono curioso di vedere che effetto ti fa e desideroso di confrontarti su questo.
Gioconda acconsente.
Le chiedo di mettersi in ascolto e leggo questo brano in cui Emanuelle, la protagonista del romanzo,
decanta il seno non cresciuto di un’incantevole ragazza, che diventa oggetto delle sue ardite brame
amorose/carnali e di minuziose descrizioni che molto amplificano le fantasie di bellezza di questo
“non-seno”.
Dopo averlo letto, guardo Gioconda e …
– Che te ne pare?
– Bello questo pensare che quell’avere il petto completamente piatto fosse un segno di distinzione, che rendeva unici quei capezzoli sporgenti.
Anche il mio ragazzo mi dice una cosa molto bella, dice che potrò anche non avere tette, ma i capezzoli belli come i miei non ce li ha nessuna!
Mi viene da sorridere. Guardo Gioconda e le dico che ha il fidanzato che si merita.
Questa sessione di counseling, di questo martedì 19 novembre 2019, terza occasione di lavoro
con Gioconda in soli quattro giorni ( prima il venerdì 15, prima sessione di counseling individuale;
poi ieri sera a scuola, lunedì 18; adesso questa seconda sessione di counseling individuale), per ora
poteva bastare.
Chiedo a Gioconda come si sente e cosa si porta a casa del lavoro fin qui fatto.
– Mi sento molto meglio, sono molto più fiduciosa. Fare quel teatrino con mia nonna mi ha fatto vedere meglio cosa voglio fare, come potrei vivermi quello che mi sta succedendo; ma non sono sicura di potercela ancora fare. Ho paura di ricadere nelle mie ossessioni, anche se adesso mi sento un po’ più forte e credo anche di saperlo fare, di potercela fare a comportarmi normalmente con le altre donne.
– Ascolta Gioconda, nostro Signore ci ha messo sette giorni a fare quello che ha fatto, noi comuni mortali possiamo permetterci di metterci più tempo a creare quello che ci serve per stare bene. Che ne dici? Credi di potercela fare ad andare avanti a piccoli passi, accettando anche di continuare a ritrovarti in situazioni che non ti piacciono e che ti fanno stare male?
– Ma sì. Anche perché non ho scelta, ma io spero che non mi ricapiti più di stare così male!
– Beh … Gioconda, proprio male male come ti è capitato di stare perché dovrebbe ricapitarti? Stai continuando a prendere le medicine e comunque, anche se sei un po’ intontita, questo tiene molto più basse le tue sensazioni di paura e di tristezza. Stai molto meglio sul piano del renderti conto di quello che ti sta succedendo e di quello che fai tu per farlo succedere. Hai riavuto esperienza che le tue allieve stanno bene con te. Hai più fiducia … se poi dovesse ricapitarti di stare male, sai già cos’è; non puoi attaccarti all’esperienza che stai facendo … al fatto che stai vedendo “che poi passa”?!
– Mah! Speriamo! Ma intanto che faccio con la mia psicoterapeuta?
– Quando dovresti rivederla?
– Dovrei rivederla questo sabato mattina.
– Guarda Gioconda, prima di questo sabato … Ti ricordi vero che siamo d’accordo che parteciperai al nostro weekend di formazione, che inizia sabato pomeriggio alle tre e finisce domenica alle 17 e 30?!
– Sì. Sì. Certo che mi ricordo. Ci voglio venire.
– Ti dicevo, prima di questo sabato, precisamente questo venerdì sera, con i miei colleghi trainer della scuola, ho una supervisione. Partecipo a un gruppo di supervisione, tenuto da uno psicoterapeuta, che ha più di settant’anni e tanta esperienza, lo incontriamo una volta al mese per portare i nostri casi e, anche noi, farci aiutare. Pensavo di portare il tuo caso e ricevere una supervisione su quello che abbiamo finora fatto insieme, avere magari qualche indicazione su come proseguire e avere anche qualche indicazione su un qualche psichiatra-psicoterapeuta di sua fiducia, da cui potresti andare, per avere un confronto esperto e professionale su quello che stai facendo, sia con la psicoterapeuta, sia con le medicine, sia con me; così ti tranquillizzi sul piano terapeutico che stai seguendo e potrai decidere meglio il da farsi. Che ne dici?
– Si … grazie. Mi fa piacere, anche perché io con questa mia psicoterapeuta non mi trovo bene, mi dice sempre un sacco di cose brutte. Tanto posso rinviare. Poi le scrivo e le chiedo di spostare il nostro incontro al sabato della prossima settimana, così abbiamo tempo, prima, di vedere cosa mi dice lo psichiatra da cui mi manderai tu.
– Allora facciamo così. Sabato prima di iniziare ti dico come è andata con il mio supervisore. Che consigli mi ha dato e da chi potresti andare.
Gioconda si sente rincuorata. Mi saluta cercando il mio abbraccio. Ricordandomi, lei, che ci
saremmo visti sabato.
– Allora ci vediamo sabato.
– Con molto piacere!
VENERDÌ 22 NOVEMBRE 2019 (supervisione)
In supervisione dichiaro subito, già nei convenevoli, che ho tanta roba da portare e che, se non c’è
nessuno che ha qualcosa di urgentissimo da condividere, vorrei poterlo fare io.
Tutti mi guardano con la faccia della curiosità.
Allora racconto, per filo e per segno, con dovizia di particolari, la storia di Gioconda e come la
sto gestendo.
Su due aspetti sono particolarmente interessato a ricevere feedback:
- Quello che sto facendo è legittimo? Non sarà mica che stia invadendo un campo, quello della cura di Gioconda?
- Quanto le mie intuizioni, principalmente quella della “proiezione” sulle altre donne, da parte di Gioconda, della sua paura/vergogna d’essere vista, con occhi puntati sul seno, siano attendibili e valga la pena lavorarci?
Sul primo aspetto, Luigi (il nostro supervisore-psicoterapeuta) mi tranquillizza subito, ricordandomi che Gioconda era venuta da me di sua iniziativa, anche perché non si sentiva sufficientemente sicura che le cure che stava ricevendo fossero adeguate e che il lavorare su di una sana gestione dei propri sentimenti era una tra le specifiche occupazione di noi counselor. Mi ricorda, inoltre, che io non ero intervenuto in nessun modo su quanto di terapeutico Gioconda stava svolgendo con altri professionisti, ma avevo colto il suo disorientamento sulla questione e mi stavo muovendo sulla cosa, chiedendo a lui cosa fare in simili frangenti e se non valutasse lui stesso l’opportunità di far vedere Gioconda da un qualche professionista di sua riconosciuta e provata bravura, in grado di dare indicazioni più sicure sul come procedere.
Su questo punto Luigi dichiara, visto quanto avevo raccontato, la sua preoccupazione circa la giustezza delle diagnosi e delle relative farmacologie applicate, soprattutto condivide i suoi forti dubbi sulla necessità di somministrare antipsicotici, in un caso come questo.
Mi suggerisce allora di inviare Gioconda da una sua collega medico-psichiatra e psicoterapeuta, con la quale ha condiviso molte esperienze formative e alla quale lui stesso invia quei pazienti che, a suo avviso, potrebbero necessitare di un trattamento farmacologico.
Mi rassicura sul fatto che lei saprà come muoversi (è un’anziana signora, intorno ai 75 anni, con tanta esperienza alle spalle ed un atteggiamento molto prudente, circa la somministrazione di farmaci, che lui apprezza molto – figuriamoci io!) e darà sicuramente buone e precise indicazioni sul da farsi, innanzitutto a Gioconda stessa.
Sul secondo aspetto, da bravo psicoterapeuta, Luigi dichiara che lui si sarebbe concentrato, nel lavorare con Gioconda, sulle origini traumatiche della sua vicenda, che da quanto avevo raccontato non sembravano chiare; riconosce, però, che il mio modo di procedere, da counselor, mi aveva permesso di individuare una dinamica (la proiezione), che, adesso che gliela avevo fatta vedere io, riconosceva assolutamente possibile, ma che lui, procedendo a suo modo, non avrebbe visto così in fretta, e, quindi, mi invita ad approfondire la cosa, continuando a dedicarci attenzioni e relativi sviluppi di lavoro e, a tal proposito, mi chiede cosa intendessi fare.
– Se quello che sta accadendo a Gioconda è, in qualche modo, collegato al suo proiettare sulle altre donne la propria paura che una donna (sua nonna?) le guardi le tette, offendendola (quindi, nella sua “proiezione”, Gioconda stessa diventerebbe per le altre donne quello che sua nonna è stata per lei), se lei riesce a fare i conti con questa sua paura, riconoscendola e imparando a gestirla, allora qualcosa potrebbe accadere; qualcosa di buono su cui lei potrebbe poggiarsi per ritrovare la sua “normalità”, un suo normale modo di guardare le altre donne e riprendere a vivere.
A tal proposito quello che ho in mente di fare con lei è farle sperimentare, nei vari modi che riuscirò ad escogitare e che mi saranno possibili, sia praticamente in situazioni sue reali, magari con altre donne a scuola, sia simbolicamente-immaginariamente, nei counseling individuali che le faccio o a scuola, dicevo farle sperimentare varie situazioni in cui altre donne le guardino il seno, magari anche completamente nudo, e la confrontino su questo, magari loro stesse a seno nudo, con modalità chiaramente diverse di quelle che ha subito da sua nonna, anche per fare esperienza di come le altre donne possano vivere il rapporto con il proprio seno e, chissà, imparare da questo qualcosa di buono.
Chiaramente, sempre con il suo consenso e verificando la sua concreta possibilità/disponibilità/capacità di farlo, con la necessaria disinvoltura e presenza di spirito.
D’altro canto, tenendo conto della forte possibilità che la sua vergogna possa corrispondere al suo aver introiettato il giudizio negativo della nonna sul suo seno, la inviterò a fare cose che possano aiutarla a sottrarsi concretamente da questo giudizio, strutturandone uno proprio, autonomo ed indipendente.
Le chiederò quindi, a ogni piè sospinto, di familiarizzare sempre più con il suo seno. Passando del tempo allo specchio a guardarlo e a parlarci, toccandoselo il più possibile, cercando di farci il più possibile amicizia e instaurando con lui il miglior rapporto possibile.
Insomma la inviterò a fare tutte cose che lei non ha ancora mai fatto!
Seguendo l’indicazione implicita che ogni grande filosofo e pedagogista abbia mai potuto dare con i suoi insegnamenti circa l’apprendimento e che Fritz Perls ha genialmente racchiuso nella sua famosa massima che dice:
– “imparare vuol dire scoprire che qualcosa di nuovo è possibile”
Gioconda poteva scoprire altre possibilità di “stare” col proprio seno, possibilità buone!
Il mio “caso Gioconda” s’è preso tutto il tempo della supervisione, questa sera.
Oltre a quanto riportato, ha dato la spunta ad un interessantissimo confronto sulle identità e sulle differenze fra psicoterapia e counseling, fra il trattamento psicoterapeutico e il valore della relazione interpersonale nel counseling, sulla diversa portata del valore della relazione nel counseling piuttosto che nella psicoterapia e su come queste differenze si sostanzino anche come differenze tra scuole di uno stesso ambito professionale, sia quello psicoterapeutico, sia quello del counseling.
Ma questa è un’altra storia, troppo complessa per essere affrontata in questa sede.
SABATO 23 NOVEMBRE 2019 (1° weekend di Formazione “X”)
Weekend di formazione in counseling,
alla Scuola IN Counseling – Lo Specchio Magico Torino.
Ho dato appuntamento a Gioconda un quarto d’ora prima dell’inizio lavori.
Volevo darle i riferimenti della psichiatra che mi aveva indicato Luigi.
Gioconda arriva con un atteggiamento tra il mogio e l’indispettito.
– Gioconda che c’è?
– Non sono riuscita a rinviare l’appuntamento con la dottoressa.
– La psicoterapeuta?
– Sì.
– Che è successo?
– Le ho scritto, ma lei mi ha detto che non potevo rinviare, che lei la settimana prossima non avrebbe potuto, che dovevamo vederci; così stamattina ci sono andata.
– E com’è andata?
– Le ho raccontato che stavo meglio, le ho detto che questa settimana non ho praticamente avuto problemi a stare vicino alle mie allieve e a guardarle; ho accennato alle cose che ho fatto con te … lei si è subito sgombrata il petto dallo scialle e si è messa bella comoda e aperta, ma mi ha detto che stavo facendo troppe cose e che rischiavo di far pasticci. Non puoi sapere quanto mi abbia dato fastidio quel suo scoprirsi tutta bella bella, lei che se ne stava sempre tutta coperta, appena le ho detto che riuscivo a guardare altre donne, anche lei si è messa in vista!
– Gioconda guarda che lei lo faceva per proteggerti.
– Sarà! Ma a me ha dato fastidio.
– Vabbè ho un po’ di cose importanti da dirti, prima di iniziare questo weekend.
Così le racconto della psichiatra da cui può andare, tranquilla che troverà una persona per bene e
una professionista di valore sicuro.
Gioconda è contenta e mi ringrazia.
Inizia il weekend, che co-conduco con Francesco, allievo del terzo anno che, come propria
esperienza di tirocinio professionale, ha progettato un lavoro di formazione sulla “competizione”:
Cos’è? Cosa ce ne facciamo? A cosa ci serve? Ci piace? La temiamo? Ecc. ecc.
Emergono molte cose interessanti, ma questa è la storia di Gioconda.
Nel corso del weekend, propongo un’esercitazione da fare in coppia (il gruppo è di tutte donne).
In ogni coppia, ciascuna dovrà decantare le bellezze del proprio seno, cercando di convincere l’altra
di averlo più bello.
Il tutto avviene in un clima giocoso, dove, alla fine, emerge che tutte hanno “giocato a perdere”.
Ha prevalso l’evitamento della competizione, camuffato da “solidarietà femminile”, amicizia e
buoni sentimenti vari.
Sugli “apprendimenti” che i vari lavori del weekend hanno proposto ci si potrebbe fare un trattato,
ma, ripeto, questa è la storia di Gioconda e a Gioconda, tra alti e bassi, sia il gioco a “chi ha le tette
più belle”, sia tutto quanto è stato vissuto nel weekend, mi sembra abbia dato molti input di
rielaborazione del proprio malessere e dei suoi elementi, aumentando la nostra fiducia di essere
sulla strada giusta.
VENERDÌ 29 NOVEMBRE (3° counseling, dopo 1° incontro con nuova psichiatra)
Gioconda arriva entusiasta.
Mi racconta subito come è andata con la nuova dottoressa, la psichiatra-psicoterapeuta dalla quale l’ho inviata.
– È una magnifica signora. Molto cara e accogliente. E poi è buddista come me! La sua casa è piena di statuette e quadri e stoffe di quel tipo lì. Mi sono trovata benissimo. Si è fatta raccontare tutto. Si è quasi arrabbiata per questa cosa che mi ha detto l’altra psicoterapeuta, di cercare di evitare il più possibile il contatto con le altre donne, fino a quando non mi fossi sentita meglio.
Secondo lei il mio sintomo, il non riuscire, l’avere paura di guardare il seno delle altre donne è solo l’indicazione di ciò che io voglio evitare, perché mi spaventa, ma a continuare a evitarlo non faccio altro che rafforzarlo.
Mi ha detto di fare esattamente il contrario, di organizzarmi al meglio per poterlo fare il più possibile, di guardare il seno delle altre donne.
Quindi ha detto che va benissimo che io venga a scuola qui da te e faccia le cose che mi stai facendo fare.
Io tiro un sospiro di sollievo. Evviva!!!
– Gioconda e per quanto riguarda i farmaci?
– Mi ha detto che di psicotico lei non rilevava nulla, ma di continuare a prendere gli antipsicotici, dimezzandone la dose, per ancora una settimana, prima di smetterli del tutto, perché visto che li sto prendendo da più di tre mesi non posso interromperli, senza graduarne l’interruzione.
Per quanto riguarda ansiolitici e antidepressivi, mi ha detto di continuare con la prescrizione che ho. Ci rivedremo fra due settimane e faremo il punto della situazione.
Mi ha detto che devo lavorare sul chakra del cuore.
Mi ha fatto fare degli esercizi di percezione visiva, facendomi fissare la mia mano, che si doveva muovere lentamente, per accompagnare la visione sul quadro generale di quello che avevo di fronte.
Mi ha invitato a guardare più che posso le altre donne, soprattutto i loro seni.
Qui a scuola posso esercitarmi.
Sono proprio contenta!
LUNEDÌ 2 DICEMBRE (2° gruppo scuola)
Gioconda partecipa al suo secondo modulo serale di scuola.
È mia abitudine dirigere i lavori prendendo spunto da quanto gli allievi “portano”, come proprio
interesse/bisogno o come dinamica comportamentale.
C’è un’allieva che ripropone, smaccatamente, una sua solita dinamica relazionale, quella del
lamento e della contestazione manipolativa.
Io mi concentro sulla cosa e tutta la serata lavoriamo confrontandola su quello che stava
facendo, sul come lo stava facendo, sul cosa questo le servisse e cosa producesse in lei e nelle
persone con cui si relazionava.
Gioconda partecipa attivamente, con feedback e spunti di riflessione attestanti una “presenza” ricca
di sensibilità, di buone maniere e di buona intelligenza emotiva.
L’allieva, sulla cui dinamica relazionale di lamento e contestazione manipolativa ci siamo
soffermati, passa una serata difficile e faticosa, ma, alla fine, sembra uscirne bene,
contenta di quanto il tutto le sia servito ad apprendere qualcosa per lei stessa molto utile, che potrà
aiutarla a gestire meglio certe situazioni in cui si sente vittima di accadimenti che, adesso, si rende
conto potrebbero essere, “semplicemente”, da lei stessa solo immaginati.
L’esperienza sarà stata utile anche a Gioconda?
Le avrà dato modo di rivedersi in circostanze simili?
Rispondendo a queste domande, potremmo vedere, sullo sfondo, uno degli aspetti di maggiore
qualità del nostro modo di fare Formazione IN Counseling.
A fine serata, prendo accordi con Gioconda di rivederci venerdì, per una sessione di counseling
individuale.
VENERDÌ 6 DICEMBRE 2019 (4° counseling)
Gioconda arriva all’appuntamento con un’aria trasognata.
– Come va?
– Bene. Ma sono un po’ preoccupata?
– Cioè?
– Al lavoro sta andando bene. Pensa che persino la mia allieva mussulmana, quella che più mi sembrava ostile, adesso mi viene a cercare, mi chiede le cose e non sta più a coprirsi tutta appena mi avvicino. Ho addirittura parlato con Lucia. Le ho chiesto se ce l’aveva con me e lei si è messa a ridere e mi ha abbracciata.
– E questa tua preoccupazione?!
– Ho paura che non duri. In realtà sto sempre sul chi vive e mi devo sforzare d’essere normale, non è che tutto venga così naturalmente, mi ci devo impegnare assai e questa cosa mi stanca.
– Ma cara mia! Mia madre ti direbbe che vuoi andare in paradiso in carrozza! Certo che ci dovrai mettere impegno a riaggiustare definitivamente quello che ti è capitato. Ma se non ti perdi d’animo e ci dai dentro, accettando anche la fatica che questo può comportare, vedrai che ce la farai, e non ci vorrà nemmeno tutto questo tempo!
– Sì, ma cosa devo fare?
-Adesso vediamo, ma prima dimmi: oggi è l’ultimo giorno della tua dose dimezzata di antipsicotico, come stai fisicamente?
– Direi meglio!
La nostra sessione di counseling prosegue confrontandoci su quello che abbiamo fatto finora, su quanto le è successo con la sua psicoterapeuta (Gioconda proprio non riesce a “mandar giù” quel suo scoprirsi il petto quando le aveva detto delle esercitazioni che aveva fatto con me e quel suo allarmarla con “tutte quelle cose brutte” che le diceva).
Io cerco di farle vedere quanto questo dipendesse da buone intenzioni, di protezione, da un lato, e di applicazione di una teoria che dice che a definire quello che abbiamo, poi riusciamo meglio a farci i conti, dall’altro.
Ma, soprattutto la invito a “lasciar andare” quello che è stato e a concentrarsi su quello che può fare adesso, che le sia utile a ritrovare il suo star bene, senza sforzi eccessivi e inutili preoccupazioni.
Così facciamo insieme alcune esercitazioni d’ascolto, intervallate da alcune mie spiegazioni sul ciclo del bisogno, sull’ansia e i suoi modi di ostacolarne il fluire, su come poter intervenire sulla nostra ansia, per trasformarla in qualcosa di buono.
Prima di salutarla, le assegno dei “compiti a casa”.
La mattina dopo le scrivo una mail, per aiutarla a far si che questi compiti non cadano nel dimenticatoio.
– Ciao Gioconda,
Ti ricordo di scrivere il tuo diario e, adesso soprattutto, di fare i “compiti” che Ti ho assegnato ieri:
- ogni volta che ti accorgi di arrovellarti su qualsivoglia pensiero, presta attenzione a come ti senti, cioè mettiti in ascolto e stacci;
- in ogni occasione di possibile contatto visivo con altre donne, concentrati sul farti guardare, mettiti in mostra più che puoi, secondo le tue possibilità, e presta attenzione a come stai, cioè mettiti in ascolto e stai con quello che senti, accoglilo più che puoi (ricorda che l’ansia è “solo” energia bloccata, se trovi il modo di farla defluire ti passa; stare in ascolto, respirare prestando attenzione al tuo respiro, fare una qualche forma di attività fisica, ti aiuta a fartela passare;l’ansia aumenta se ti fermi a pensare e più pensi più l’ansia aumenta)
- GUARDATI più che puoi (sempre stando in ascolto), allo specchio, rivolgendo il tuo sguardo su te stessa; guardati quando sei vestita e, soprattutto, guardati nuda, dappertutto, ma soprattutto guardati le tette!!!
Un bacione e un abbraccio.
Domenico.
VENERDÌ 13 DICEMBRE
Nel primo pomeriggio Gioconda ha il suo secondo appuntamento con la psichiatra, dalla quale l’ho inviata.
Due settimane fa, nel primo incontro, le aveva dimezzato gli antipsicotici, raccomandandosi di prenderli ancora per una settimana, poi di interromperli. Poi, in questo incontro, avrebbero visto cosa fare.
Quest’ultima settimana, dal venerdì scorso del nostro ultimo incontro di counseling, Gioconda, come da prescrizione della sua psichiatra, non ha più preso l’antipsicotico, ha continuato con l’ansiolitico e l’antidepressivo.
Avremmo dovuto vederci il lunedì, ad un laboratorio della scuola sulla comunicazione non violenta, ma quello stesso giorno Gioconda festeggiava con il suo ragazzo, il compleanno dello stesso.
Saprò questa sera che, progressivamente, nel corso della settimana, Gioconda ha ripreso a star male.
Secondo la sua psichiatra questo è dipeso, anche, dalle variazioni riguardanti i farmaci che stava prendendo. Ci vorrà un po’ di tempo perché si “stabilizzi”, anche in associazione alla stabilizzazione della terapia farmacologica, che sembra debba continuare ad assumere.
Questa sera inizia un weekend lungo di formazione, alla nostra Scuola IN Counseling.
Lavoreremo dalle 18.00 fino alla 17.00 di domenica. Quattro ore il venerdì, nove il sabato e sette la domenica. Venti ore dedicate alla sperimentazione di come il nostro fare counseling interagisca con gli orizzonti teorico-culturali-spirituali, che lo incorniciano.
Lavoreremo sui cicli di vita e sul ciclo del contatto, seguendo ispirazioni di stampo gestaltico, fenomenologico ed esistenzialista e utilizzando pratiche di meditazione proprie della cultura orientale.
Gioconda sarà dei nostri! Infatti, in mattinata scrive sulla chat della scuola per chiedere se qualcuno potrà darle un passaggio, di ritorno a casa, visto lo sciopero dei mezzi pubblici.
Se necessario, posso certamente fare io una piccola deviazione per portarla, allora rispondo sulla chat, dicendole di non preoccuparsi, perché, se non ci sarà nessuno a farlo, lo farò io.
Gioconda risponde subito per ringraziare.
Nel pomeriggio ha appuntamento con la psichiatra, che adesso la segue.
Subito dopo averla incontrata, Gioconda mi scrive un whatsapp.
– Ciao Domenico, ancora grazie del passaggio di questa sera … volevo farti sapere che la dottoressa mi ha confermato la depressione, aumentandomi gli anti depressivi. Negli ultimi tempi ho ricominciato a perdere fiducia in me stessa e nel lavoro che faccio. Vivo ancora nella totale sfiducia di me stessa e delle altre donne. Evito e non lavoro come vorrei e ciò mi angoscia. Possiamo fare di nuovo qualche esercizio sulla fiducia oggi, quello del guardarsi, di abbracciarsi? Ne avrei tanto bisogno, sto cadendo di nuovo a pezzi.
Io le rispondo ricordandole che, per lei, in questo momento, è normale avere “alti e bassi”. Le chiedo di resistere, rassicurandola sul fatto che nei nostri lavori di questo weekend avrebbe sicuramente trovato quanto stava cercando.
Mi rendo conto d’essere un po’ in allarme, ma ad ascoltarmi, ritrovo la mia fiducia e mi ritrovo, anche, ad auto-deridermi: “com’ero stato sciocco a pensare che tutto potesse risolversi facilmente e velocemente!
Ma la fiducia prevale. Il mio pensare che tutto si sarebbe “risolto” velocemente e facilmente, era stato il correlato del mio entusiasmo nell’assistere, partecipandovi, ai prodigiosi, repentini, miglioramenti di Gioconda.
Certo, mentalmente sapevo che Gioconda sarebbe, in vario modo, potuta “ricadere” nella sua sofferenza, ma io preferivo dar valore a quello che stava accadendo, di bello ed entusiasmante: il miglioramento dei suoi stati d’animo e il suo ricominciare a stare con altre donne, senza starci male.
Ci sarebbe stato modo di reagire diversamente, opportunamente, a fronte di situazioni diverse, che, ahimè, ora Gioconda annunciava.
Gioconda arriva a scuola in ritardo, mi scrive che ha dovuto prendere un taxi perché non passavano mezzi (il collegio docenti ai quali partecipava era finito tardi, dopo l’inizio dello sciopero dei mezzi pubblici di trasporto).
Quando entra nella nostra sala di formazione, dove noi tutti abbiamo iniziato, seduti in cerchio, ha una faccia spaurita e una postura incurvata, saluta tutti, scusandosi per il ritardo, mentre si accomoda sulla sedia vuota, che la sta aspettando.
La vedo guardarsi intorno, con la smorfia in viso di chi trattiene le lacrime.
Tutti rispondono al suo saluto. Io la invito a respirare e ad aver fiducia, perché i lavori che stiamo per avviare sembrano caduti come una manna dal cielo, proprio per lei, visto che saranno sull’adolescenza.
Le chiedo il permesso di dire due cose su di lei a tutto il gruppo, perché c’è qualcuno che non la conosce ancora.
Chiaramente non entro in alcun particolare. Dico semplicemente che Gioconda ha iniziato a fare counseling con me, per meglio affrontare una situazione di crisi personale che sta vivendo e che le sta procurando disagi vari. Insieme abbiamo valutato che l’avrebbe potuta aiutare, anche, lavorare sulla propria formazione e crescita personale, nei termini in cui lavoravamo noi, e per questo era qui, adesso, con noi. Come la cosa si sarebbe sviluppata … “l’avremmo scoperto solo vivendo”.
La mia battuta stempera un clima un po’ cupo, di preoccupazione e dispiacere, che l’arrivo di Gioconda ha innescato.
Allora chiedo a Edoardo di introdurre la serata, rimandando le presentazioni personali, tra Gioconda e chi ancora non conosceva (due/tre persone solamente), al successivo, prossimo, momento di esercitazione esperienziale, che sarebbe seguito.
Questo weekend di formazione è stato molto ricco di accadimenti particolarmente stimolanti, significativi ed appaganti.
In particolare, il gioco a tre squadre, dove una metteva in scena, teatralmente/mimicamente, una tra le interruzione di contatto (confluenza, introiezione, deflessione, proiezione, proflessione, retroflessione, egotismo) classificate da vari gestaltisti, e le altre due la dovevano indovinare, è stata occasione, oltre che di giocoso divertimento, di riflessioni e confronti particolarmente arricchenti.
Un altro momento molto stimolante è stato quello in cui abbiamo rielaborato i feedback dei partecipanti, relativi all’esperienza vissuta eseguendo una certa pratica guidata di meditazione Vipassana.
Da quanto Gioconda condivideva, nel gruppo, della propria esperienza, durante i lavori, e quanto emergeva dal mio confrontarla, “one to one”, in alcuni breack di questi stessi lavori, andava definendosi, per me, una nuova e più ampia visione delle problematiche esistenziali in cui Gioconda si stava, malamente, muovendo.
Il suo raccontarmi il lavoro sul “chakra del cuore”, che la psichiatra le aveva proposto e, in particolare, il suo dirmi come, durante il collegio docenti cui aveva partecipato prima di venire a scuola da noi, nessuno la considerasse e stesse a sentire e il suo dichiarami la sua collegata paura di non valere niente, di non saper fare il proprio lavoro, di non meritarsi d’essere pagata per questo, mi avevano immediatamente permesso di vedere quanto la “mancata” crescita del seno potesse essere, per Gioconda, “solo” una punta dell’iceberg dei tanti problemi, tipici della fase di crescita e maturazione personale che stava vivendo.
– scusa Gioconda, ma mi stai dicendo che durante il collegio docenti cui hai partecipato ti aspettavi che i tuoi colleghi, che sono tutti più vecchi di te, che sicuramente affrontavano il collegio con la voglia di finirlo al più presto, dopo averne fatti chissà quanti nella loro carriera, prestassero attenzione a te, che sei una ragazzina, ultima venuta e, per di più, insegnante di sostegno?!
Chiaramente, la mia era una provocazione.
Volevo mettere Gioconda con le “spalle al muro”, permettendomi una “spietatezza” che confidavo
lei avrebbe potuto accettare da me (sapevo quanto Gioconda mi si fosse affezionata, quanto mi
stimasse e si fidasse di me).
Volevo che lei considerasse il suo “status” da un punto di vista diverso del suo: quello di una
ragazzina smaniosa di riconoscimento personale/sociale e (perché no?) di donna.
Volevo che lei vedesse la differenza di condizioni e stato personale, tra chi (ogni suo collega) quasi
certamente era alle prese con istanze ordinarie di disbrigo di pratiche ordinarie, di un lavoro che
considerava ordinario e, forse, anche un po’ noioso, routinario e cose similmente brutte, e chi, come
lei, non si rendeva conto di mettere in gioco, in una riunione in cui non poteva che essere
considerata l’ultima ruota del carro, la soddisfazione di bisogni personali, straordinariamente ben
più grandi e complessi di quello di vedere tenuti in debita considerazione i propri interventi.
– Quindi Gioconda, mi stai dicendo che tu, proprio in un momento della tua vita in cui stai male, in cui “sei messa male”, perché soffri, hai mille preoccupazioni, mille paure, mille incertezze, mille difficoltà, mille inconsistenze, insomma proprio adesso che non hai le forze per farlo, pretendi di riuscire a farti valere in una riunione di docenti tutti molto più grandi di te, che sicuramente vedono come sei messa adesso e, anche per questo, tagliano corto e non ti danno, legittimamente, retta?!
Ma scusa, cosa ti sarebbe successo di brutto se te ne fossi stata defilata, prendendo la parola solo su richiesta e limitandola allo strettissimo indispensabile?
Non credi che sarebbero stati tutti più contenti?Non pensi che fosse proprio questo che tutti si aspettavano e volevano da te?!
Cosa credi? Forse che gli altri si aspettino che arrivi tu a governare quello che c’è da fare?
Proprio tu che sei l’ultima arrivata?!
Gioconda mi guardava sgranando gli occhi, con un leggero, ma progressivo movimento di apertura
della bocca. Io capivo che stavo facendo centro.
Gioconda, “poverina”, è una ragazza che si trova ad affrontare, una delicatissima situazione di
cambiamenti personali, praticamente da sola, senza cioè i più importanti riferimenti/aiuti socio-
relazionali, con cui, solitamente, queste situazioni vengono affrontate: la famiglia d’origine, in
primis, la propria rete di relazioni personali, l’ambiente in cui si cresce e dal quale lei s’è dovuta
distaccare venendo a vivere-lavorare a Torino, tutta “roba” che agisce da protezione pratica e
psicologica, quando si affrontano importanti situazioni di cambiamento personale.
Gioconda è già sofferente, preoccupata e spaventata per un accadimento che, nella sua esperienza di
vita, ha messo in discussione le sue possibilità di crescita, riconoscimento sociale e, quindi, di
affermazione personale, in un registro molto delicato dell’esistenza: l’identità di genere.
Come ci si possa sentire, quanta paura d’essere “reietti” dalla vita, con tutti gli annessi e connessi
che questo può comportare, si può provare ad essere una ragazza cui non cresce uno degli attributi
fondamentali di individuazione ed identificazione di appartenenza sessuale?!
Questo, quando dovesse malamente incrociarsi con le altre difficoltà tipiche di un’età di mezzo
particolarmente difficile e problematica come l’adolescenza, può o non può portare ad un vero e
proprio collasso esistenziale, tra i cui effetti potremmo riscontrare anche varie forme di disturbo
psichico?!
Ma i disturbi ossessivo-compulsivi, l’ansia anticipatoria, la depressione, non potrebbero
progressivamente diminuire, fino a sparire, o essere più facilmente “curabili” sul piano
“terapeutico-sanitario”, se il soggetto in questione imparasse a gestire opportunamente e con
successo le difficoltà che sta incontrando nel cercare di soddisfare i propri naturali e legittimi
bisogni di crescita?
E questi non sono forse quelli che abbiamo tutti?
- Diventare una donna (se siamo una ragazza), in pieno possesso e orgogliosa della “maturazione” dei propri attributi, fisici e fisiologici, estetici e funzionali, di genere sessuale;
- Conquistare una propria autonomia di pensiero, di sentimento, di azione;
- Garantirsi propri mezzi di sussistenza materiale;
- Affermarsi e avere successo socialmente.
- Garantirsi affetto, amore e riconoscimento sociale.
Gioconda ci fa vedere a quali rischi va incontro, e in quali guai potrebbe incappare, chi non dovesse riuscire a gestire opportunamente e con successo la soddisfazione di tali bisogni.
Il counseling è una relazione d’aiuto volta ad agevolare, in chi gli si rivolge, la ripresa del naturale fluire dei processi di soddisfazione dei propri bisogni, quando questi si sono in qualche modo e da qualche parte incagliati.
Gioconda sembrava incagliata sugli scogli della paura di non poter essere donna, tra le altre donne, professionista, tra gli altri professionisti, individuo con un’identità certa, riconoscibile e riconosciuta, dal mondo e da se stessa.
Quello che adesso sospettavo, anzi in cuor mio ne ero certo, era quanto, tra gli scogli su cui Gioconda s’era incagliata, ci fosse anche quello della sua rabbia.
Una rabbia che non s’era mai permessa (o comunque certamente non sufficientemente) di esprimere, di agire in qualche modo contro tutti e tutto ciò che aveva ostacolato, e/o ostacolava, la soddisfazione del proprio bisogno d’essere vista e riconosciuta come donna, come persona, con una identità sociale-professionale certa e definita, insomma una persona con pieno diritto d’esistenza e sicura di questo diritto.
Cos’altro poteva essere per Gioconda, su di un piano esistenziale, non certo medico-psichiatrico (sul quale mai mi permetterei di proferir parola! Sul quale sapevo Gioconda essere ben seguita!), la sua depressione?!
Gioconda manifestava un carattere mite e dolce, che, unito al fatto che nei suoi occhi lampeggiassero, ripetutamente, sguardi infantili, imploranti misericordia, come di chi chiede di non essere ferita, come di chi cerca protezione dall’incombere di oscure minacce, aumentava il tasso di tenerezza che ispirava in tutti i partecipanti ai gruppi scuola ai quali aveva finora partecipato.
Ma la scuola IN Counseling Lo Specchio Magico Torino è una piccola comunità di persone identificate nei valori dell’accoglienza e dell’aiuto reciproco; persone che si allenano all’ascolto e all’osservazione non giudicante; persone interessate alla relazione e alla qualità del contatto.
Come poteva essere la vita di Gioconda fuori da qui?!
Gioconda ce ne faceva immaginare una parte, quella della sua paura di contattare gli altri, in primis le donne, poi tutti quelli con cui misurarsi sul piano del proprio valore personale, nei vari ambiti esistenziali in cui questo fosse in gioco.
Che tutta questa paura potesse farla arrabbiare, che le evidenze di rifiuto (reali o immaginarie che fossero) che viveva potessero farla arrabbiare ancora di più, solo una persona totalmente priva di ogni senso empatico potrebbe non rilevare, non sentirne cioè risuonare i moti dentro di sé.
Ma Gioconda tutta questa rabbia sembrava non toccarla.
A me questo mi parlava della sua depressione, più o meno con queste parole:
– Se gli altri mi rifiutano, posso arrabbiarmi con loro e rivolgere verso di loro la mia rabbia?
Certo che sì! Ma questo potrebbe comportare il fatto che loro mi rifiuteranno ancora di più?!
No. No. Meglio non rischiare. La rabbia me la tengo dentro, non la tiro fuori, non la faccio vedere, troppo pericoloso.
Ma il crescere della rabbia che contengo in me accresce la tensione, rende l’ansia insopportabile, mi fa stare troppo male.
Non si può continuare a sentire questo male.
Così imparo a non accorgermi della mia rabbia e a non sentirne i correlati di ansia, tensione e sofferenza, deprimendomi.
La depressione è quello stato dell’anima che non ci fa sentire la rabbia.
È un risvolto possibile del protrarsi di quell’interruzione di contatto del ciclo di soddisfazione di un
proprio bisogno, che in Gestalt viene definita “retroflessione” (faccio a me stesso quello che non
riesco a fare all’altro; tengo dentro di me ciò che vorrei, o avrei bisogno di, buttare fuori di me, su
qualcun altro).
Con la depressione tutto si ammanta in un velo di tristezza sempre più spesso, che, se non troviamo
modo di squarciare, strappare e fare a brandelli fino a liberarcene interamente, può arrivare a
soffocarci e ad ucciderci.
Per questo a chi soffre di depressione non dovrebbero mancare, anche, cure mediche, specifiche e
ad hoc.
Ma chi soffre di depressione ha, anche e per certi versi soprattutto, bisogno di contatti e relazioni
sociali calde e nutrienti, che lo mantengano in contatto con forme e sostanze di vita buona, fino a
ricondurlo interamente ad essa.
Questo è quanto stavamo facendo noi con Gioconda, io facendole counseling, la scuola facendole
Formazione IN Counseling!
Quando la domenica mattina, dopo avere presentato e spiegato i caratteri teorico-ideali e culturali,
che ne integravano la pratica con il nostro fare “gestalt-counseling”, Paolo ci ha guidato in una
mezz’ora di meditazione Vipassana, dall’elaborazione dei feedback che ne è seguita, è emerso il
ruolo dell’ego nelle malsane gestioni dei nostri processi di soddisfazione dei nostri naturali bisogni
di affermazione personale.
Allora io mi sono permesso di chiedere a tutti di chiudere gli occhi e mettersi in ascolto,
immaginarsi una qualunque situazione in cui non siamo benvisti e/o benvoluti ed il nostro ego urla
prepotentemente il suo dispetto per questo, per non essere considerato, riconosciuto ed osannato,
come quell’essere straordinario, di incommensurabile bellezza, bravura ed eccellenza, che “si crede
d’essere”; ho chiesto a tutti di stare a sentire come ci sentiamo quando siamo in situazioni simili,
riconoscendone i risvolti emotivi e fisiologici.
Fallo anche Tu che stai leggendo.
E dopo aver assaporato tutto il malessere che questa cosa ti procura, prova a domandarti:
– ma chi cazzo credo d’essere?
Mi si perdoni il termine “cazzo”, ma non trovate che sia un rafforzativo semantico di straordinario
vigore?
Un rafforzativo semantico in grado di marcare il valore della domanda, mettendoci
irrimediabilmente in contatto con la nostra natura miserabile di esseri umani, aiutandoci ad
accettarla?
Non ci aiuta questo a fare i conti con la naturale possibilità che ci capiti di ritrovarci in situazioni in cui la nostra volontà non venga accettata, i nostri desideri respinti, i nostri bisogni trascurati?
Non ci aiuta a scoprire che se ne riconosciamo la naturale possibilità, più facilmente possiamo accettarla e, grazie a questo, più facilmente sapremo orientarci verso più sani intendimenti che non si riducano allo strepitar dell’ego, ai suoi vaneggiamenti e alle sue vane azioni?!
– Ma chi cazzo credo d’essere per immaginare che mi sia dovuta l’attenzione ed il riguardo che pretendo?!
– Quando imparerò che, per avere quello che voglio, tocca innanzitutto a me muovermi per ottenerlo?!
– Quando e come riuscirò a fare i conti con il fatto che non tutto quello che voglio potrò sempre averlo?!
A questo punto, tutti hanno potuto riconoscere che potrebbe farci bene, almeno per la gestione contingente dell’ansia che ci assale, rivolgere mentalmente la stessa tipologia di domande, anche agli altri (quelli che non ci riconoscono, che ci trattano male, che si disinteressano completamente di noi), quegli altri con cui abbiamo a che fare, che sono sempre in preda alle manie del loro ego (abbiamo presente quei tipi narcisi, che, se si rivolgono a noi, è solo per usarci come mezzi per l’affermazione della loro vanagloria?!),!
– Chi cazzo credi d’essere?!
– Ma chi cazzo credi d’essere per immaginare che io ti debba l’attenzione ed il riguardo che pretendi?!
– Quando imparerai che per quello che vuoi da me, tocca innanzitutto a te muoverti per ottenerlo?!
– Riuscirai mai a fare i conti con il fatto che non tutto quello che vuoi da me potrai sempre ottenerlo?!
Insomma, tutte “sperimentazioni” per esplorare i mondi possibili in cui potersi meglio muovere, per stare sempre meglio!
Tutte sperimentazioni per orientarci verso nuove esperienze, in grado di farci crescere meglio.
Tutte sperimentazioni attraversate da accattivanti riflessioni sulle caratteristiche di impermanenza dell’ “essere”, legato al suo muoversi, cambiando, nel tempo; sul significato e le valenze del “qui ed ora”, unico “luogo” in cui poter vivere la nostra vita, producendo qualcosa di buono, unico momento in cui poter “aggiustare” quel che siamo, rispettando l’unica regola che noi counselor fenomenologici-esistenzialisti-umanisti consideriamo inderogabile: “viene prima il sentire”.
I lavori del weekend si sono conclusi con il tradizionale giro di feedback finali.
Questo quello di Gioconda:
– Di questo weekend mi porto a casa “che voglio volare basso” e la speranza di poterlo fare perché credo d’aver capito che sia la cosa migliore per me.
Avrò tempo per fare di più.
Adesso voglio continuare a venire a scuola, qui con voi, perché mi fa bene, perché voglio imparare tutte le cose belle che qui si imparano e che a me interessano molto.
Voglio ringraziarvi tutti, per esser così cari e gentili con me, per come vi state prendendo cura di me, per le belle parole che mi dite, per il coraggio che mi fate, per come mi state aiutando a soddisfare questi miei bisogni di sguardi, di abbracci, di attenzioni. Prometto che appena mi sentirò un po’ meglio lo farò anch’io con voi, vi aiuterò anch’io a soddisfare i vostri bisogni.
Grazie. Grazie. Grazie a tutti.
Nel dirlo, Gioconda congiunge le mani, in quel gesto di ringraziamento, che sembra una preghiera,
ma è un grazie detto col cuore, chinando la testa.
LUNEDÌ 16 DICEMBRE, gruppo scuola ore 18.30 – 21.30
– Gioconda come stai?come è andata stamattina a scuola?
– Sto abbastanza bene. Stamattina abbiamo accompagnato la classe al cinema, a vedere un film. Io sono entrata in sala per ultima, per controllare che tutti gli allievi entrassero, e i miei colleghi insegnanti si erano già seduti in prima fila tutti vicini, ma a me non hanno tenuto un posto accanto a loro. Ci sono rimasta male e stavo già per imparanoiarmi, poi ho pensato a quello che ci hai detto ieri e che tanto mi aveva alleggerito il cuore e mi sono detta: << chi cazzo si credono d’essere questi qui?! Posso trovarmi un buon posto anche da un’altra parte. Infatti mi sono girata e ho visto che c’era posto vicino ad un altro gruppo di insegnanti, di un’altra scuola, mi sono seduta lì e ci sono stata benissimo!>>
– Ahahahahahahah brava Gioconda!
La serata viene gestita con un counseling di gruppo.
Un’allieva del terzo anno fa un counseling a un’allieva del primo, che porta una sua difficoltà
relazionale con l’ex marito, circa la gestione di un figlio in comune affido; tutti ascoltano e daranno
i loro feedback finali. Io intervengo, alla bisogna.
Gioconda è oramai una di noi. Partecipa ai confronti è dà un bellissimo feedback finale a Franca
(l’allieva che ha ricevuto il counseling), dichiarandosi incantata per il valore di madre che ha messo
in mostra e invitandola a riconoscerselo, anche come leva da agire per meglio gestire le proprie
difficoltà di gestione del rapporto, ostacolato dall’ex marito, con il figlio.
GIOVEDÌ 19 DICEMBRE
Gioconda mi ha chiesto di anticipare a oggi il nostro ultimo appuntamento di domani pomeriggio, prima delle vacanze natalizie.
Mi ha scritto che prima di andare a casa, al suo paese, in provincia di Napoli, per le vacanze di Natale, vuole fare un weekend lungo con il suo ragazzo. Andranno a Lione, partendo subito, all’uscita di scuola.
Ci vediamo di sera, prima non potevo.
Gioconda arriva sorridente, sta di nuovo meglio.
Mi racconta come è andata martedì con la psichiatra. Mi dice quanto è brava, meravigliata e contenta perché ha scoperto che la dottoressa è primario del reparto di neuro-psichiatria di non ricorda bene quale ospedale.
Insomma, si sente in buone mani e mi ringrazia per questo.
Io le chiedo, subito, se ci sono state variazioni della sua farmacologia. Gioconda mi risponde di no, dicendomi che la dottoressa le ha confermato gli antidepressivi e ribadito che non ha bisogno di antipsicotici, dicendole che ci vorranno un paio di settimane perché la terapia produca il suo pieno effetto, dopodiché si potrà procedere alla sua progressiva diminuzione, fino a smetterla.
Mi racconta cosa le ha fatto fare.
Anche lei le ha fatto inscenare un dialogo immaginario, questa volta con una sua collega, con la quale ha parecchie difficoltà perché questa ha il seno sporgente e, spesso, scollato.
Mi racconta che si stanno concentrando sulle sue difficoltà a guardare donne di questo tipo.
– Con la dottoressa finisco sempre con il lamentarmi di come non riesco a stare serena quando parlo con una donna col seno sporgente o semplicemente con un indumento scollato.
La dottoressa mi ha dato degli esercizi per il Natale. Esercizi di focalizzazione dello sguardo. Mi devo concentrare su qualcosa di particolare, ad esempio la mia mano in leggero movimento, e da lì, poco alla volta, progressivamente, allargare lo sguardo a tutto quanto c’è intorno, per poi ritornare sulla mano e così via.
Mi ha fatto fare l’esercizio della sedia vuota. Mi ha fatto parlare con una mia collega che mi mette molta ansia, col suo seno e con le sue scollature.
Mi ha spiegato come provare a cambiare sguardo nei confronti delle donne. Perché, al momento, il guardare le donne é la cosa che più mi dà fastidio.
Veramente quello che mi mette in crisi non è tanto il mio guardarle, se loro non mi guardano. Io vado in crisi quando le guardo e loro ricambiano il mio sguardo.
– Di questo dovresti parlare meglio con la tua dottoressa.
Comunque, sono proprio contento del lavoro che fai con lei.
Vedo che si sta concentrando sul tuo sguardo verso le altre, aiutandoti a ricostruire modalità sane di guardare ciò che sta fuori di te.
Io, invece, sto più con quello che mi hai appena detto: “Veramente quello che mi mette in crisi non è tanto il mio guardarle, se loro non mi guardano. Io vado in crisi quando le guardo e loro ricambiano il mio sguardo”.
Per questo vorrei che tu lavorassi sullo sguardo delle altre donne su di te, facendo di tale sguardo e delle parole, dei gesti, dei pensieri collegati a questo sguardo, esperienze diverse dalla vergogna, su cui a me sembri ancorata.
Ti ho già detto che sospetto che la tua difficoltà di incrociare lo sguardo con le donne sia collegata al tuo sentimento di vergogna, al vergognarti del tuo seno, vergogna che chiaramente non saresti costretta a provare se le altre donne non ti guardassero; ma questo non puoi impedirlo.
Allora, il comando che non puoi dare alle altre (“Non guardatemi, perché se lo fate, mi guarderete il seno e questo non lo posso sopportare!”) , lo retrofletti su di te, sforzandoti di non guardarle. Insomma ti dai un comando tipo: “Non devo guardare le altre donne, ché se lo faccio, finirò col guardar loro le tette!,” senza però, ovviamente, riuscire ad eseguirlo.
Come fai ad essere viva e a non guardare la “metà del mondo alla quale tu stessa appartieni”?!
Quindi, ricapitolando, con la dottoressa ti eserciti a guardare le altre donne (così questo ti può sganciare dalla tua difficoltà nel farlo); con me, ti eserciti a farti guardare da loro; così prendiamo il toro da entrambe le corna! Che ne dici?
Gioconda mi guarda in silenzio e piega le labbra in giù, in una smorfia di tristezza improvvisa e profonda.
– Che c’è Gioconda, cosa ti succede che fai quella faccia così triste con quella piega delle labbra?
– No. È che mi chiedo come sia stato possibile … come mi è potuta accadere una cosa del genere?
Nella risposta che darò quest’ultima domanda di Gioconda, chiedo a te che leggi di riconoscere una sintetica rappresentazione di cosa sia, praticamente, il counseling.
Ti chiedo di riconoscere quel suo essere una relazione interpersonale vera, in cui il counselor, mettendosi in gioco autenticamente, con i propri sentimenti, i propri pensieri e i propri comportamenti, aiuta i propri clienti a fare altrettanto, permettendo loro di contattare nuovi “mondi possibili”, intendendo con questi nuove proprie possibilità di sentimenti, pensieri e comportamenti.
Nel counseling lo strumento principale di intervento è la relazione; una relazione che si sviluppa in forza delle capacità di ascolto, di osservazione non giudicante e di comunicazione del counselor.
Una relazione la cui qualità è data da come il counselor riesce a incontrare il proprio cliente, dal suo saperlo contattare, dal suo “saper stare in relazione” con lui, condividendone gli sviluppi di sentimento, di pensiero e di intendimenti, fino ad offrirglieli come rampa di lancio di quei cambiamenti necessari a quel miglioramento che quel cliente stesso tanto desidera.
Il counseling attiva, in chi gli si rivolge, inimmaginate e risolutive prese di responsabilità personale, che prendono forma in risposta alla qualità della relazione counselor-cliente.
La qualità del counseling è “quella semplicità relazionale, che si sviluppa spontaneamente dal saper accogliere, saper ascoltare, saper osservare senza giudicare, saper comunicare empaticamente” del counselor.
Il counseling è quella “semplicità impossibile a farsi” per tutti quei professionisti della relazione d’aiuto che considerano il proprio coinvolgimento umano, nella relazione con i propri assistiti, un’interferenza, un fattore di disordine per loro pericoloso, perché temono possa produrre mancanza di controllo e impossibilità di verifiche scientifiche.
Chi la pensa così, e considera di potere/sapere fare counseling, è uno stolto.
Non si può fare counseling senza coinvolgimento umano-personale con i propri clienti, perché questa è la chiave di volta dell’efficacia del counseling.
Ma adesso torniamo da Gioconda, con la mia risposta alla sua domanda.
– Gioconda, vieni qui che ti abbraccio. Se proprio vuoi sapere come ti sia potuta accadere una cosa del genere, ti dico come la vedo io.
Puoi ripensare a te in quel momento delicatissimo dell’esistenza, in cui avvengono le trasformazioni del corpo, dei pensieri, dei desideri, dei sentimenti, in cui è impossibile non essere presi dai timori di quello che sta accadendo, dal desiderio e anche dalla paura di diventare grandi. Puoi riconoscere quanta paura si possa avere di non riuscire a farcela a diventare grandi, a diventare una persona fatta e compiuta come si deve?
Ripensa a come ti sei sentita, con le tette che non crescevano e tua nonna che ti tormentava per questo, come se non bastassero le tue paure.
Ripensa a tutta la fatica che hai fatto per riuscire comunque a “stare” con quello che ti stava accadendo.
Ti sarà sicuramente servito avere altri vissuti che compensavano la sfiga di un seno che non cresceva secondo le aspettative tue e degli altri.
Gli altri vissuti cui mi riferisco sono il fatto che con i ragazzi avevi comunque successo, che eri comunque a casa tua, con la tua famiglia, al tuo paese, in mezzo a tante persone che ti volevano bene e alle quali comunque andavi bene.
Penso a tutta la rete di relazioni nella quale eri ben integrata.
Amici, amiche, compagni di scuola, famiglia, parenti, eccetera eccetera.
Secondo me, il fatto che non ti crescesse il seno è stata per te una tra le particolari difficoltà che il crescere in generale può rappresentare.
Non è facile per nessuno crescere e diventare grandi; riuscire ad affermarsi come persone autonome e indipendenti, sicure di sé, del proprio essere e delle proprie possibilità di vivere bene.
Certamente, riconoscersi all’altezza di ciò che la vita ci chiede d’essere, o di avere, è un requisito indispensabile per riuscire a farcela a conquistare le proprie sicurezze; non avere un seno prosperoso, nel contesto socio-culturale in cui sei cresciuta, non poteva certo essere una cosa facile da gestire, ma comunque ce l’hai fatta, fino a quando non si sono cumulate una serie evidentemente insopportabile di altre tue difficoltà.
Mi riferisco a quelle che hai dovuto affrontare venendo via dal tuo paese, a soli 20 anni, a ricostruirti una vita a Torino. Tu da sola, impegnarti in un lavoro difficile come quello che ti sei trovata, in un contesto che non brilla per qualità di accoglienza, aiuto e solidarietà; senza la vicinanza di una famiglia cui fare affidamento nei momenti difficili, senza la rete delle tue amicizie, in un “clima” sociale ben diverso da quello caloroso che comunque si vive, in generale, al Sud, un clima al quale se ci hai fatto l’abitudine, poi come fai a farne a meno?!
Insomma, una ragazza che già ha patito, e sicuramente continua a patire, per la mancata crescita del proprio seno (quanto deve essere stato difficile, per una ragazza che diventa donna, fare a meno di uno tra i più riconosciuti attributi di genere femminile?!), se si ritrova a patire anche per quello che ho appena elencato, non può ritrovarsi in una sorta di “collasso esistenziale” i cui effetti possono, anche, comportare tutto quello che ti è accaduto?!
Ho risposto alla tua domanda “come mi è potuta accadere una cosa del genere?”
– Sì, quand’ero al mio paese io ero una ragazza normale, vivevo una vita normale, anzi più che normale; ero considerata una specie di leader, tutti mi cercavano, tutti mi volevano.
Però anche qui le cose non sono andate male. Pensa che la preside mi aveva dato pure compiti di coordinamento dei lavori tra gli insegnanti della classe.
– Poi cos’è successo?!
– Non lo so. So che non avevo amici. Pensa che per festeggiare il mio compleanno ho scritto nella chat del gruppo teatrale al quale m’ero iscritta, per invitarli a berci una birra in un locale, e nessuno mi ha risposto. Allora ho cancellato il messaggio e, solo lì, qualcuno mi ha scritto per scusarsi, ma oramai era fatta!
– Certo Gioconda, sei una ragazza sveglia e piena di qualità, non mi sorprende il comportamento della preside, che riconoscendolo, ti dà subito certe mansioni.
Non mi sorprende nemmeno che tu, per un certo periodo, sia riuscita a svolgerle al meglio.
Finché non sei “collassata”, finché cioè il cumulo di difficoltà che stavi affrontando non ti ha sovrastato.
Certamente non avrai riconosciuto, e/o avrai cercato in tutti i modi di non dare valore a, chissà quali e quanti segnali i tuoi sentimenti, i tuoi pensieri, i tuoi atteggiamenti ti stavano dando per indicarti il crescere del tuo malessere.
Magari il tuo “collassare” è da benedire perché ti sta obbligando a prenderti cura, in modi più consapevoli e maturi, di te stessa. Che ne dici?
– Uhmm … io non voglio più stare così male. Non ce la faccio più!
– Allora vediamo cosa si può fare, perché tu possa stare sempre meglio.
Ci sono due cose di cui voglio parlarti, della tua rabbia e dei “compiti per le vacanze” che ti voglio dare.
Partiamo dalla rabbia. Ti ricordi cosa ti ho detto, questo weekend appena passato di formazione, sul rapporto tra una rabbia inespressa e lo svilupparsi di stati depressivi?
– Sì. In effetti, finché sono stata a casa, gridavamo sempre, tutti. Io gridavo con mia nonna, con i miei fratelli e sorelle; loro gridavano con me. Gridavamo tutti. Da quando sono a Torino, qui a Torino, non ho più gridato con nessuno, mi sono molto chiusa in me stessa.
– Uhmmm … Gioconda, magari si tratta di trovare qualche nuovo modo, meglio se un po’ più evoluto, di esprimere la rabbia e di rifarsi una vita sociale degna d’essere vissuta.
A questo proposito, ti prego di considerare le opportunità che il frequentare il gruppo scuola, della nostra scuola in counseling, ti può offrire.
– Sì, sì. Qui a scuola mi trovo benissimo. Mi piace un sacco.
– Ma torniamo alla rabbia. Prima di tutto, si tratta di imparare a riconoscerla. Perché se non impari a riconoscerla, e io sospetto che tu ti sia dimenticata di cosa sia la rabbia, ti ho sempre solo vista o triste ed impaurita o dolce, tenera e remissiva, dunque ti dicevo, che se non impari a riconoscere la tua rabbia come farai a cercare un modo buono per esprimerla?
Per questo, imparare ad ascoltarti, prestando sempre più attenzione a come ti senti, invece di cercare di evitarlo, è il tuo compito più importante, dal quale poi chissà quante cose potremo inventarci perché tu possa stare sempre meglio.
– Si. Sì. Devo imparare ad ascoltarmi. Devo dedicarmici, mettermi lì e farlo il più possibile.
– Preferirei tu dicessi “voglio”, invece che “devo”. Prendi anche questo come un tuo compito. Presta attenzione a quando usi questo verbo “devo” e, quando ti accorgi di averlo fatto, riformula il tuo dire, sostituendo i “devo” con i “voglio”. Poi mi dirai che effetto ti fa.
– Sì. Sì. Voglio, voglio, voglio.
– Bene! Gioconda. Allora impegnati a fare quello che io chiamo il “fare la spola”. Ogni volta che ti senti, in qualsiasi modo in difficoltà, fermati ad ascoltarti: presta attenzione a come ti senti, cercando di dare un nome a quello che senti; dopo averlo fatto, dopo aver riconosciuto quello che hai sentito, che ne so, come paura, rabbia, tristezza, confusione, eccetera, vedi se riesci a collegare quello che hai sentito e riconosciuto ai pensieri o alle cose che stavi facendo, e così via, appena metti a fuoco un pensiero o un comportamento che ti mette in difficoltà, rimettiti immediatamente in ascolto, per scoprire cosa senti e se e come, ascoltandolo, quello che senti possa cambiare. Se non riesci a scoprire cosa senti, pazienta, ricordati che la pazienza è la virtù dei forti e, se tu non lo sei più, puoi ritornare a esserlo esercitandoti alla pazienza.
Poi ricorda che di tutto questo ne puoi parlare con me, quando facciamo counseling, oppure a scuola.
– Va bene Domenico, ci proverò.
– Brava Gioconda, dai! Vedrai che, se ti assumi la responsabilità di farlo, non potrai che farcela!
L’altro compito importantissimo che ti do è quello di trovare una qualche tua amica cara, con la quale sei in confidenza e con la quale puoi permetterti di stare in buona intimità. Raccontargli cosa ti è successo, dille che hai bisogno di fare un compito, un’esercitazione di consapevolezza che consiste nell’essere guardata, meglio se a seno nudo; chiedile se è disposta a farlo, per te. Il massimo sarebbe se poteste farlo entrambe a seno nudo, facendovi tutte le confidenze del caso, osservandovi, se ce la fate e vi va, anche toccandovi, per condividere gli effetti che la cosa vi fa.
Come vi fa sentire guardarvi? E toccarvi?
Che sensazioni vi procura?
Cosa ci trovate di bello nei vostri seni?e nel toccarli?
E se c’è qualcosa che non vi piace, come potete fare per gestire la cosa al meglio?
Ditevelo l’una per l’altra, del proprio e dell’altrui seno.
C’è qualcuna tra le tue conoscenti con cui pensi di poterlo fare?
– Sì, c’è una mia cara amica, indiana, con cui lo posso fare. Quando è capitata l’occasione lei non ha mai avuto difficoltà a mettersi in topless.
– Bene Gioconda, fallo più che puoi e cerca ogni occasione per familiarizzare col tuo seno e con quello delle altre. Cerca occasioni in cui più facilmente puoi fare esperienza della tua possibilità di stare a tuo agio col tuo seno e con quello delle altre.
Poi scrivi tutto quello che ti succede nel tuo diario e, se vuoi, mandamelo via e.mail, che appena posso ti rispondo.
– Sì. Sì. Lo faccio.
– Sulle altre difficoltà, più di carattere socio-relazionale, a scuola, al lavoro e con gli amici, ci concentreremo alla ripresa della nostra scuola in counseling, a gennaio, dopo le vacanze.
L’incontro-sessione di counseling con Gioconda volge al termine.
Ci salutiamo, scambiandoci gli auguri di buone feste, abbracciandoci.
Sono fiducioso che, seppur con le fatiche del caso, Gioconda possa, in tempi non troppo lunghi,
ritrovarsi in una buona condizione di stabilità emotiva, nutrirsi di buoni pensieri e ritornare a
comportarsi normalmente, naturalmente e adeguatamente con tutti, con gli altri, con le donne, con
se stessa; per poter poi sempre più agevolmente continuare a crescere e a maturare, fino alle
realizzazioni/affermazioni personali-professionali che desidera e, certamente, merita.
Per ora, questa storia di counseling si interrompe qui.
Rivedrò Gioconda a Gennaio e, nel caso, ne riprenderò il racconto.
Ma questa storia di Counseling e di formazione IN Counseling, con Gioconda, merita alcune
riflessioni-considerazioni finali.
RIFLESSIONI E CONSIDERAZIONI FINALI
La prima, forse la più importante, riguarda la mia speranza che, Tu che leggi, possa aver compreso
quella che è la più importante differenza tra chi, per aiutare il prossimo, fa counseling e chi opera su
di un piano psico-sanitario.
Quest’ultimo si muove lungo una linea che parte dall’indagine diagnostica (test, analisi, indagini
volte ad individuare il tipo e la forma di “malattia” da curare) e prosegue con la prescrizione di cure
farmacologiche e comportamentali (indicazione direttiva dei comportamenti da agire e dei pensieri
da cui farsi ispirare e a cui riferirsi).
Questa è la linea di confine con il fare counseling.
Chi fa counseling si muove lungo la linea delle emozioni e dei comportamenti che permettono di
incontrare l’altro, sul piano delle sue sensazioni e dei suoi sentimenti, per esplorarne il rapporto con
i suoi pensieri ed i suoi comportamenti e scoprire, insieme, come muoversi per migliorare lo stato di
malessere esistenziale (non di malattia mentale, né di disturbo psichico-psichiatrico) nel quale si sta
dibattendo.
Spero che questo sia stato visto, ad esempio, quando racconto come sono “approdato” al sentimento
di vergogna di Gioconda.
Vi sono approdato per contagio emotivo.
Quella di farsi “contagiare emotivamente” dai nostri clienti è una caratteristica propria del
fare counseling, una posizione che si pone agli antipodi di ogni intenzione e prassi di chi si
occupa di malattia e cura della stessa.
Chi fa counseling si occupa di persone e di umanità.
Con la nostra formazione, noi counselor abbiamo imparato che possiamo farci contagiare senza per
questo morire o diminuire d’efficacia nel nostro lavoro; anzi, ci facciamo contagiare come leva del
nostro lavoro.
Il “caso Gioconda” è una storia di confine.
Avviene in una terra di frontiera dove è possibile trovare un po’ di tutto, ma tutto mischiato e contaminato.
Il bisogno di aiuto che Gioconda presenta, evidentemente, richiede risposte articolate, le cui ramificazioni affondano in competenze reperibili in differenti e diverse professionalità.
Che il disturbo ossessivo-compulsivo di Gioconda e le sue ansie anticipatorie e la sua depressione rappresentino un quadro clinico sul quale necessariamente uno specifico personale, medico-sanitario, possa/debba intervenire, non può essere messo in discussione.
Ma come non riconoscere che Gioconda abbia bisogno anche di specifiche attenzioni e interventi relazionali, di vera e propria valenza educativa, in grado di riorientarla verso più sane gestioni della propria esistenza?!
(Vedi la ripresa di questo tema nel seguente capitolo 5.3)
Ecco la terra di confine in cui la storia di Gioconda si muove: quella tra il campo delle cure medico-psicoterapeutiche e quello delle esperienze formative, paraeducative, che solo specifiche e particolari professionalità socio-relazionali possono offrire.
Il counseling è indubbiamente una di queste, tanto più di valore quanto meglio gestita ed organizzata.
Gioconda arriva al counseling casualmente (vivaddio!), mossa dal proprio senso di non aver ancora trovato, con la psicoterapeuta e la neurologa che la seguivano, il bandolo della matassa del proprio malessere.
Appena comincio a fare counseling con lei, appena le presento cosa potrà fare con me e cosa potrà ottenere da me, Gioconda appare subito rincuorata e soddisfatta, dichiara il proprio convincimento (desiderio?) sulle cure mediche-farmacologiche-psicoterapeutiche come mezzo per abbattere i propri stati d’ansia, di paura e di tormento relazionale, ma rimarca la propria convinzione che il suo ritornare a stare bene sarà funzione della sua possibilità di re-imparare a farlo.
Nelle varie sessioni di incontro-lavoro di counseling che abbiamo avuto, non c’è stata occasione in cui Gioconda non abbia dichiarato il proprio bisogno educativo:
– “io ho bisogno di imparare come fare a ritornare a stare bene; ho bisogno di qualcuno che me lo insegni, non di qualcuno che mi riempie la testa di cose brutte, dicendomi che io ho questo, che io ho quello”.
Se noi counselor riformulassimo questa dichiarazione di Gioconda nei seguenti termini:
– “la soddisfazione del bisogno di scoprire come fare a ritornare a stare bene, senza doversi riempire la testa di cose brutte, è quanto noi counselor offriamo ai nostri clienti all’interno delle nostre relazioni di counseling, come esperienza da costruirsi insieme”,
allora, per noi counselor, in materia di definizione della specificità della nostra professione, non ci sarebbe altro da fare che insistere sulla rivendicazione delle nostre competenze relazionali come specifica consistenza e particolare qualità della nostra professionalità.
Chi si rivolge al counseling, lo fa perché sta vivendo una qualche difficoltà esistenziale alla quale non riesce a far fronte con i mezzi, personali-sociali, attivabili per lui, e da lui stesso, in quel momento.
La relazione di counseling lo aiuta a ritrovare e ad attivare tali “mezzi”.
Noi counselor ci muoviamo affinché la relazione di counseling rappresenti, per i nostri clienti, un’esperienza in grado di favorire la scoperta e l’apprendimento di nuove e più funzionali possibilità di gestione/risoluzione personale delle proprie difficoltà, quelle stesse che a loro, prima, sembravano insormontabili.
Il tutto può avvenire perché mettiamo in campo, nella relazione di counseling, le nostre specifiche competenze e abilità di osservazione non giudicante, ascolto, accoglienza e comunicazione, integrate, creativamente, a esercitazioni di vario tipo, che permettono, ai nostri clienti, l’esplorazione e la sperimentazione di “nuovi mondi da abitare”; mondi da cui trarre buone indicazioni sul cambiamento di pensieri e di comportamenti necessario a produrre i miglioramenti esistenziali che stanno cercando.
La Formazione IN Counseling è, principalmente, un’esperienza in cui impariamo ad ascoltare, ad accogliere, a osservare senza giudicare e ad usare la comunicazione, per favorire il miglior e più efficace utilizzo delle nostre e delle altrui capacità di ascolto e di accoglienza. Il resto viene da sé.
Pensare che per fare counseling necessitino capacità diagnostico-terapeutiche (che in realtà ne riducono la potenza) vuol dire snaturare il counseling.
È comprensibile che lo pensino e cerchino di imporlo quelle categorie professionali la cui identità è centrata sul loro poter diagnosticare e curare malattie (in questo modo si accaparrerebbero, in esclusiva, un gigantesco mercato), ma che noi counselor si risponda confluendo sulla necessità di dotare i counselor di competenze diagnostiche di base relative al disturbo psichico e, quindi, inserendo nei nostri percorsi formativi alcune ore dedicate allo studio delle malattie e dei disturbi mentali, mi sembra un’operazione a dir poco risibile.
Diagnosticare e curare malattie è una cosa (un’attività al quanto difficile e delicata, che per imparare a farlo ci vuole una “vita” di studio e di lavoro); fare counseling è tutt’altra storia!!!
Abboccare all’amo del pensiero che per fare counseling necessitino capacità diagnostico-terapeutiche comporta, ineludibilmente, l’impossibilità di inquadrare l’identità del counseling come specifica attività professionale di una specifica categoria professionale, quella di noi counselor.
Il Counseling è una struttura relazionale organizzata, professionalmente, in funzione d’aiuto.
L’aiuto che il Counseling è in grado di offrire riguarda lo sviluppo di consapevolezza necessario a meglio affrontare e gestire qualsivoglia difficoltà, piccola o grande, del vivere quotidiano.
Sull’annosa questione del “cos’è il Counseling e chi può farlo”, abbiamo bisogno di risposte semplici, in grado di aiutare tutti gli interessati a meglio orientarsi sulla questione stessa.
In questa direzione, propongo la seguente visione (sintetizzando quanto già esposto nel capitolo 2 “Storia del counseling”, di questo stesso manuale):
- A partire da Carl Rogers, anche gli psicologi (in realtà psicoterapeuti) si accorgono e riconoscono che un certo modo di aiutare il prossimo [chiamato Counseling, già utilizzato in vari contesti sociali, basato sull’utilizzo di specifiche competenze relazionali, ispirate da visioni filosofiche che pongono l’uomo come soggetto potenzialmente dotato, naturalmente, di tutto ciò che serve per vivere bene], produce buoni effetti anche nella cura dei propri pazienti.
- Molti di loro integrano il Counseling, sviluppandone le potenzialità, nelle loro attività professionali, fino a non distinguere più i confini tra Counseling e Psicoterapia .
- Molti di loro, però, non perdono di vista il fatto che il Counseling rimanga uno specifico impianto relazionale, che può essere appreso e ben utilizzato anche in contesti diversi da quelli psicoterapeutici e, forti del loro averne acquisito e sviluppato un’importante competenza, nei loro ambiti professionali di lavoro e di ricerca, si mettono loro stessi (pur non essendo counselor, ma psicoterapeuti che sanno di counseling fino al punto di averne migliorato gli utilizzi) ad insegnarlo anche a non psicologi.
- Il fatto che il Counseling abbia avuto, a livello mondiale, un più forte accreditamento storico-sociale in forza della sua valorizzazione in ambito psicoterapeutico, se da un lato rilancia le “fortune” del Counseling, accreditandone il valore anche al di fuori di contesti psicoterapeutici, per altri aspetti fa sì che in qualche modo alla Psicoterapia rimanga agganciato (in Italia, purtroppo, in modo subalterno).
- Questo porta molti psicologi ad accusare noi counselor di fare psicoterapia o, meglio, di sovrapporci all’intervento psicoterapeutico, senza averne titoli e capacità (a loro dire, il counseling altro non sarebbe che un insieme di “atti tipici”, specifici della loro professione, che, quindi, solo loro possono legittimamente esercitare).
Io, in quanto counselor, invece, continuo ad affermare che il Counseling sia una “semplice” (una “semplicità” difficile a farsi), ma particolare, struttura relazionale organizzata per finalità di aiuto intorno a quattro specifiche competenze:
- ascolto,
- accoglienza,
- osservazione non giudicante
- comunicazione interpersonale empatica, non violenta.
Tale struttura relazionale può essere agita, da chi, avendo seguito uno specifico percorso formativo-professionale, ne ha acquisito la capacità di utilizzo, ponendola al servizio di chiunque lo richieda.
Il Counseling si qualifica come particolare relazione d’aiuto in quanto straordinaria gestione, di applicazione e valorizzazione, di alcune, specifiche e particolari, potenzialità umane, quali:
- L’Accoglienza,
- L’Ascolto,
- L’Osservazione non giudicante,
- L’Empatia,
- Il Confronto critico,
- La Comunicazione interpersonale,
- L’Espressione Artistica,
- La Creatività.
Tali potenzialità umane, debitamente valorizzate e usate nelle nostre relazioni d’aiuto, diventano le nostre “Competenze/Abilità di Counseling”, quelle su cui principalmente noi counselor ci formiamo, quelle che, debitamente applicate, qualificano la nostra professionalità.
Ma cos’è una potenzialità?
Una potenzialità è una facoltà “in nuce”, che abbiamo bisogno di sviluppare e valorizzare, allenandola continuamente, per poterla usare al meglio delle sue possibilità.
Nel linguaggio comune, ad esempio, parliamo di “facoltà mentali”, “facoltà di intendere e di volere”, come funzioni che un individuo può esercitare secondo le proprie possibilità.
Abbiamo altresì, come esseri umani e ancora ad esempio, le “facoltà” di correre, di stare svegli, di leggere, di cantare, di respirare, di mangiare, di lavorare, di svolgere determinate mansioni e azioni, di interessarci a certe questioni, ecc. ecc. ecc.
Noi counselor, come “potenzialità/facoltà” specificatamente utilizzate nelle nostre relazioni di counseling, attiviamo e gestiamo, in modo strategico, accurato e organizzato, le “facoltà” di accogliere, di ascoltare empaticamente ed attivamente, di osservare senza giudicare, di confrontarci criticamente, di comunicare efficacemente, di esprimerci artisticamente, di agire creativamente.
La Competenza/Abilità con la quale usiamo queste nostre “potenzialità/facoltà” e il rilievo che a queste diamo nel nostro operare in qualità di counselor è esattamente ciò che qualifica e definisce una relazione di counseling.
L’insieme di Competenze/Abilità, che qui chiamiamo di counseling, del Counseling marcano ed occupano l’intera identità, respingendo l’intromissione di altre Competenze/Abilità, proprie di altre professioni.
Il counseling è counseling proprio perché è un fortilizio dai confini invalicabili; la relazione professionale di counseling trae da questo fatto il proprio, esclusivo e specifico, punto di forza.
Cosa voglio dire con questo?
Voglio dire che il counseling ha un’identità che si fa forza di alcuni specifici propri confini e impossibilità:
- I confini dell’interpretare/giudicare,
- L’impossibilità di diagnosticare malattie e prescrivere cure.
Il counseling è una relazione in cui interpretazione e giudizio sono confini da presidiare, la diagnosi e il curare un divieto assoluto!
Chi fa dell’interpretare, del giudicare e diagnosticare, la propria indispensabile funzione professionale, NON può fare Counseling!
Il counseling, come relazione d’aiuto, consegue i propri buoni risultati perché utilizza competenze che funzionano al meglio delle loro possibilità, proprio perché utilizzate in assenza di giudizio, di diagnosi, di interpretazione.
Quegli psicologi che ci fanno la guerra, se comprendessero/accettassero questo fatto, smetterebbero di farci la guerra!
Per gli psicologi, diagnosticare lo stato mentale delle persone cui prestano i loro servizi è condizione indispensabile, necessaria, obbligatoria, per decidere il da farsi con loro.
Noi counselor, invece, pensiamo che il NON diagnosticare lo stato mentale delle persone con cui lavoriamo sia una condizione indispensabile per rendere efficace il nostro intervento.
Paradossalmente, noi counselor siamo la categoria professionale che in assoluto ha meglio e maggiormente dato valore ad una delle “scoperte” (dell’acqua calda!) più significative della Psicologia Umanistica:
- l’importanza di considerare la persona nella sua interezza; quella di far leva sulle sue potenzialità di crescita, sviluppo, maturazione, per affrontare le difficoltà che incontra nel vivere la propria esistenza, prima di ricondurre queste difficoltà ad un qualche stato di malattia o disturbo mentale.
La possibilità di aiutare il prossimo a risolvere i propri problemi esistenziali, di volta in volta legati alle difficoltà del vivere e del crescere, ricorrendo a quelle che qui abbiamo chiamato “Competenze di Counseling” è un insegnamento che deriviamo, in generale, da tutte le “Scienze” definite “Umane”: Filosofia, Storia (di tutto ciò che riguarda l’esistenza umana e le sue forme espressive), Antropologia, Sociologia, e, in ultimo, dalla Psicologia Umanistica.
Le scienze umane, con le esperienze che hanno raccolto e indagato, in mille modi ci hanno insegnato il valore e l’importanza del saper accogliere, ascoltare empaticamente e attivamente, osservare senza giudicare, confrontarsi criticamente, comunicare efficacemente, esprimersi artisticamente, agire creativamente.
Chi fa counseling professionalmente si assume la responsabilità (respons-abilità: risposta + abilità, buona capacità, abilità, di rispondere a ciò che la vita ci chiede) di utilizzare in chiave di aiuto tali competenze; di utilizzarle, in “modalità strutturata ad hoc”, per aiutare chi, contingentemente, non ce la fa, coi propri mezzi/risorse personali-sociali, ad affrontare difficoltà del vivere quali, ad esempio: un qualsivoglia stato di impasse che ostacola il naturale fluire dei propri processi di crescita personale, una crisi coniugale, una perdita del lavoro, l’orientarsi nelle proprie scelte di studio, il trovare la forza per affrontare uno stato di malattia (proprio o di una persona cara), la gestione di un cambiamento residenziale o un qualsivoglia conflitto interpersonale, privato o di natura professionale.
In Italia, una certa parte del mondo della psicologia, fa la guerra a noi counselor, reclamando il counseling come un dominio di propria esclusiva competenza.
Questa posizione non tiene conto dei seguenti fatti:
- rivendicare la prerogativa esclusiva dell’utilizzo, per quanto organizzato, di competenze che riguardano l’applicazione di facoltà squisitamente umane, quali quelle qui in discussione (Accoglienza, Ascolto, Osservazione non giudicante, Empatia, Confronto critico, Comunicazione interpersonale, Espressione Artistica, Creatività), è un’operazione che sconfina nel ridicolo, oltre ad essere priva di ogni fondamento etico-giuridico-liberale;
- la gran parte degli psicologi che rivendicano il counseling come loro esclusiva competenza professionale NON hanno una formazione specifica di counseling e, quindi, non lo sanno fare;
- il counseling, come modello relazionale, abiura ogni ingerenza di carattere diagnostico-giudicante; la psicologia, come scienza e come attività, è centrata sull’attività diagnostica e sull’osservazione giudicante;
- quest’ultimo fatto inquadra setting ben differenti, e produce esiti ben differenti, quando a fare counseling è uno psicologo piuttosto che un counselor (insomma: il counseling fatto da uno psicologo, che non ha seguito una specifica formazione in counseling, non avrà mai la stessa “qualità” di quello fatto da un counselor);
- la psicologia in Italia è stata riconosciuta legislativamente come professione sanitaria, il counseling non è una professione sanitaria, anche se può essere usato in sanità (un letto è un mobile destinato al sonno e al riposo, che può essere usato in abitazioni private, in alberghi e in ospedali; il fatto che venga usato in ospedale NON può essere ragione sufficiente per far pensare a chi si occupa di sanità di rivendicarne l’utilizzo esclusivo per fini sanitari!!!);
- Considerare il counseling un dominio esclusivo della psicologia, vuol dire considerare ogni difficoltà del vivere, compreso ogni disagio emotivo, spirituale, di coscienza, un problema sanitario, vale a dire una malattia. Questo prospetta una visione del vivere comune e sociale se non paranoica, almeno disturbata e foriera di sviluppi sociali terrificanti.
L’essenza del counseling è l’uso delle competenze/abilità che lo qualificano, per far insorgere, maieuticamente, nel cliente, una nuova consapevolezza di ciò che caratterizza i propri problemi, una nuova consapevolezza dei modi in cui li sta affrontando e di come potrebbe migliorarli.
Un counselor può fare counseling perché dello stesso ha debitamente sviluppato le specifiche Competenze/Abilità ed ha imparato a usarle, adeguatamente, nelle proprie relazioni professionali d’aiuto.
Apprendere e fare proprie le Competenze/Abilità di Counseling è il focus principale che viene perseguito nei percorsi di formazione in counseling; applicarle nelle proprie relazioni d’aiuto professionale, sviluppandone le possibilità di attivare e sostenere processi di crescita, sviluppo, miglioramento personale, è quanto facciamo noi counselor, quando facciamo counseling.
Il resto è un corollario funzionale.
Sono un corollario funzionale tutti i “saperi” umanistici dai quali il counseling trae insegnamenti e supporto.
Diversamente, ad esempio, da quello che capita a chi fa psicologia, per la cui formazione e professione è il counseling ad essere un corollario potenzialmente funzionale e non sempre valorizzato; ma il focus principale sono il quadro diagnostico, l’indispensabilità di procedure validate scientificamente, i saperi teorici ed i conseguenti interventi terapeutici o similari.
Il counseling, come struttura organizzata di specifiche competenze/abilità, non ha altra possibilità di diventare una specifica competenza professionale (di accoglienza, ascolto, ecc.) se non attraverso un apprendimento pratico-esperienziale, di esercizio e applicazione personale, di ciascuna di quelle potenzialità umane il cui utilizzo e la cui valorizzazione abbiamo qui inquadrato come ciò che qualifica il fare counseling:
- Accoglienza
- Ascolto
- Empatia
- Osservazione non giudicante
- Confronto critico
- Comunicazione Interpersonale
- Espressione artistica
- Creatività
Sono queste potenzialità/facoltà umane che, debitamente applicate, qualificano il fare counseling. Non sono competenze che si apprendono sui libri, all’Università o attraverso studi di carattere teorico, sono competenze che si apprendono esercitandole, sotto la guida di “maestri” esperti.
Questo è ciò che qualifica la Formazione IN Counseling!
Certo, il counseling ha proprie “giustificazioni” teoriche ed ha, altresì, teorie di riferimento che ne sostengono la pratica.
Ma le “giustificazioni” teoriche e le teorie di riferimento cui guarda il counseling riguardano un insieme di saperi, relativi alla condizione umana e alle sue declinazioni, che chiunque, dotato di buona cultura generale, può acquisire, nel corso della propria Formazione IN Counseling.
Per accedere a tale formazione specifica di counseling, quindi, non è necessario un titolo di studio specifico, ma una buona cultura generale, buone doti d’apprendimento e una serie di “qualità” personali (anche solo potenzialmente ben sviluppabili) quali: sensibilità, creatività, umiltà, pazienza, coraggio, generosità, intelligenza emotiva, empatia, spirito critico, senso di responsabilità.
Noi counselor perdiamo di vista e svalutiamo la specifica e particolare natura pratica/esperienziale/fenomenologica del counseling, ogni qualvolta cadiamo nella trappola mentale che ci spinge a pensare che conseguiremo l’obiettivo di istituzionalizzarci ed essere riconosciuti come legittimi professionisti a condizione di seguire i sentieri di affermazione classica seguiti da chi è diverso da noi (in primis gli psicologi).
Gli psicologi, coerentemente ai propri elementi identitari, si qualificano sui registri dell’epistemologia, della teoretica e della scientificità e ci accusano di abusivismo professionale proprio perché non abbiamo la loro preparazione teorica e non seguiamo le loro procedure scientifiche.
MA NOI SIAMO QUELLO CHE SIAMO PROPRIO PER QUESTO.
PERCHÈ ABBIAMO VALORIZZATO E SAPPIAMO VALORIZZARE ALTRE ISTANZE.
Insistere sull’istituzione di “Comitati Scientifici”, sulla ricerca di “Cornici Epistemologiche”, sulla burocratizzazione delle attività di counseling, sulla formalizzazione delle sue procedure, porta inevitabilmente a considerare le “Competenze di Counseling” come uno sfondo di cose scontate a disposizione di tutti, non caratteristiche specifiche di noi counselor.
Noi counselor corriamo il rischio, per usare una metafora gestaltica, di invertire, in ciò che ci qualifica, la relazione “figura-sfondo”.
Ci auto-lesioniamo, immolandoci alla falsa coscienza che afferma che ciò che non può essere provato scientificamente sia privo di valore, quando non addirittura pericoloso.
Non ci rendiamo conto che, così facendo, diamo ragione a quegli PSICOLOGI ITALIANI, secondo i quali NON È POSSIBILE (anzi è pericoloso per la salute delle persone) GESTIRE UNA RELAZIONE D’AIUTO PROFESSIONALE CHE PRESCINDA DALLA CAPACITÀ DI DIAGNOSTICARE LA PRESENZA DI EVENTUALI MALATTIE/DISTURBI MENTALI.
Una visione, questa, che non riconosce la possibilità che qualcuno possa essere meglio aiutato proprio in forza del fatto che chi aiuta non è condizionato dal presupposto che si debba prioritariamente considerare e indagare la possibilità della presenza di una qualche malattia o di un qualche disturbo mentale. Né, tantomeno, ha sempre attiva un’attenzione al rilevare la presenza di un qualche disturbo mentale/comportamentale/di personalità!
Lo so che questa è una posizione difficile da sostenere “politicamente”, perché non è ben vista dai potentati accademici, non si poggia sui luoghi comuni di “cosa viene prima e di cosa viene dopo”, di “cosa sia giusto e di cosa sia sbagliato”, del “valore insindacabile della Scienza e dei suoi riti procedurali”.
MA COUNSELING VUOL DIRE CAMBIAMENTO!
Noi counselor possiamo produrre il cambiamento di visione delle cose, sulle quali far leva per sostenere la nostra affermazione professionale.
Mi sono chiare tutte le difficoltà e tutti gli sforzi e tutte le buone intenzioni di chi ci rappresenta e si muove con la finalità di far riconoscere al meglio il counseling come professione specifica di noi counselor, puntando, ad esempio, a far diventare la formazione in counseling un percorso universitario.
Cosa c’è di valore più indiscutibile della formazione universitaria? Dei regolamenti? Delle procedure formalizzate? Dei presupposti epistemologici? Della Scientificità?
MA COUNSELING VUOL DIRE CAMBIAMENTO!
Vuol dire dar valore a quello che finora è stato trascurato.
E per sostenere questa tesi do voce ad un Counselor, Francesco Bonsante, che è anche Psichiatra, Psicoterapeuta, Docente di Counseling e Arteterapia, che scrive (anno 2018) parole che riconosco come rappresentative del pensiero di tanti “counselor anonimi”; anonimi perché non hanno scelto di impegnarsi in ruoli e funzioni pubbliche di rappresentanza, né di farsi sentire, in qualche modo, da chi queste posizioni occupa.
Riporto un commento pubblicato su Facebook, in risposta ad un articolo in cui, con molta pacatezza ed un pizzico di rassegnazione (per come l’ho vista io), uneminente psicologo-psicoterapeuta e formatore di counselor italiano giustificava la scelta di Federcounseling (fortunatamente poi abbandonata, in favore di una molto più inclusiva) di sbarrare l’accesso alla formazione in Counseling a chi non fosse in possesso del titolo di una qualsivoglia Laurea breve.
– “ Spero che tu abbia modo di riflettere, con onestà, sul tema di cui hai appena scritto e soprattutto su ciò che hai scritto. Avendo esperienza di lavoro, chiediti cosa, di ciò che hai studiato, ti è servito nella relazione di aiuto. A meno di avere come cliente uno psicologo, non credo che le tue nozioni teoriche abbiano facilitato la comprensione tra voi. Se tu fossi laureato in lettere moderne potresti intenderti meglio con un insegnante di lettere ma niente di più, la chimica con un chimico ecc. Per sostenere una conversazione di un certo livello, indubbiamente è necessaria una preparazione di base. Per questo è stata istituita la scuola dell’obbligo, fino a 16 anni. E il diploma di scuola superiore è teoricamente sufficiente (se non è stato conseguito a calci nel sedere). All’università si insegnano (ed è sempre di più così) materie specialistiche che non aggiungono altro alla cultura generale. A scuola e all’università si studiano nozioni, dati, informazioni astratte, senza un’educazione alle emozioni, alle relazioni, al contatto interpersonale. Nel nostro panorama (se si escludono le scuole di counseling,n.d.r.) non c’è scuola di nessun livello che sappia educare a questo. La formazione di counseling si contraddistingue perché fornisce queste conoscenze/competenze attraverso una didattica interattiva appositamente predisposta e soprattutto attraverso il lavoro su di sé fatto con umiltà e serietà, durante il percorso di formazione. Mi sembra risibile, quasi mistificante, pensare che tre anni di studi (libreschi) universitari, migliorino la competenza relazionale o facilitino l’apprendimento di un’arte basata sull’autenticità, la presenza, la comunicativa, l’empatia, il rispetto, la capacità di decentrarsi nel punto di vista altrui. Sicuramente la formazione del counselor è da migliorare ma semmai in direzione opposta a quella del “titolo di studio” indicata da Federcounseling, incrementando eventualmente la componente esperienziale, la supervisione del tirocinio, le esercitazioni pratiche guidate e soprattutto la consapevolezza del lavoro su di sé di crescita personale degli studenti. La proposta di Federcounseling rimette a macinare concetti antiquati di preparazione vista come istruzione teorica, che ha già squilibrato abbastanza la nostra cultura occidentale, fino ad ora”.Io preferisco continuare a pensare che counseling voglia dire cambiamento, innanzitutto di ogni pensiero, ogni sentimento, ogni comportamento che ostacoli la soddisfazione dei nostri bisogni di crescita e di sviluppo personale, di benessere, di gioia e di felicità.
Se sei interessato al Counseling; se vuoi diventare un Counselor, CONTATTACI.
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