Il gruppo, la comunità, la società liquida.
Il gruppo, la comunità, la società liquida.
Questo è il capitolo 8.3 del
“Manuale per la Formazione IN Counseling” .
Quanto presentato in questi capitoli dedicati a “La natura sociale dell’esistenza umana e le sue forme” ha come presupposto il riconoscimento della socialità come caratteristica naturale, fondamentale, del genere umano, funzionale alla sua esistenza, alla sua sopravvivenza e al suo sviluppo.
Per l’uomo la socialità è un bisogno intrinseco al proprio vivere; consiste nel bisogno di contatto e relazione con i propri simili, si declina nel suo costituirsi in società e nella socializzazione delle proprie esperienze di vita.
Parliamo quindi di “natura sociale dell’esistenza umana” perché riconosciamo che l’esperienza sociale, per noi uomini, è un fatto naturale e, perciò, indispensabile, un bisogno fondamentale la cui soddisfazione è alla base della nostra vita e della sua qualità.
Stare insieme e in relazione, socializzare, è un bisogno fondamentale dell’uomo; nei capitoli 8.1 – 8.2 – 8.3, del presente Manuale, analizziamo i più importanti modi attraverso cui l’uomo lo soddisfa: la coppia, la famiglia, il gruppo, la comunità.
Della coppia e della famiglia abbiamo già parlato.
Nonostante la soddisfazione dei nostri bisogni, di socialità (identificazione e appartenenza, mutuo soccorso, sicurezza esistenziale, affettività e amore), sia messa a dura prova dalla “liquidità” cui sembrano tendere le forme sociali del nostro vivere contemporaneo[1], vedremo ora quanto e come le esperienze di vita di gruppo e di comunità rappresentino, per noi uomini, mezzi indispensabili di soddisfazione di tali bisogni.
Il bisogno di socialità, per la quantità e qualità dei bisogni che comprende (stare insieme, condividere, scambiare, competere, collaborare, aiutarsi, identificarsi, individuarsi, differenziarsi, scontrarsi, ecc.), è alla base della nascita e degli sviluppi di ogni società umana e delle sue forme.
Società è il modo organizzato di stare insieme degli uomini, quando i loro legami diventano complessi e duraturi; un modo funzionale alla gestione dei loro rapporti, di qual si voglia natura, genere o tipo. Le società umane sono state, nel tempo e nello spazio, variamente organizzate, sempre sul principio di funzionare a garanzia della propria sopravvivenza e riproduzione.
Ogni società umana è un sistema culturalmente regolato, che produce credenze e immaginazioni collettive, sulle quali finisce per poggiarsi; un sistema che funziona grazie al rispetto generale di principi e norme condivise.
Per questo, qui sotto anticipiamo, in quindici punti, la nostra tesi su: “La comunità come principale, naturale, declinazione sociale dell’esistenza umana”.
- L’uomo è un “animale sociale”, per vivere ha bisogno di stare in contatto e in relazione con i propri simili; ha cioè un bisogno di socialità la cui mancata soddisfazione sarebbe causa di un malessere esistenziale e psichico, che porterebbe velocemente alla morte.
- L’uomo soddisfa tale bisogno in varie forme, quelle di base sono la coppia, la famiglia, il gruppo, la comunità; quest’ultima è anche la forma sociale di convivenza umana che valorizza tutte le altre e l’intera società, quando questa è animata dal suo spirito.
- Il senso di comunità, nella sua accezione più semplice, contenuta nello stesso vocabolo, è quello di “unità comune”; un valore di “unità comune” ha segnato la nascita di ogni forma sociale di esistenza, accompagnandone gli sviluppi, dal nucleo familiare al clan a ogni altro più esteso e organizzato tipo di società, dalla tribù alla nazione allo stato moderno.
- La comunità è la condizione sociale che, storicamente, finora, ha permesso all’uomo di soddisfare, nel modo più completo, i propri bisogni di socialità; per questa ragione consideriamo la “comunità” una condizione sociale ineludibile dell’esistenza umana, un suo bisogno naturale, inderogabile.
- Sin dalle sue prime forme (il clan, la tribù), le società umane si sono costituite su basi comunitarie e su queste hanno portato avanti i loro sviluppi; le società umane sono tutte fondate su principi comunitari e rappresentano, da un punto di vista antropologico – storico – organizzativo, le forme più evolute che l’uomo si é dato per soddisfare il proprio bisogno di socialità.
- Una società in cui insorgono e si sviluppano tendenze anticomunitarie mette fortemente a rischio la propria utilità e, quindi, la propria esistenza.
- Il bisogno di comunità permane anche quando le forme di socialità e di società, che ne garantiscono la soddisfazione (come sta avvenendo in questi nostri tempi), sono in fase di cambiamento.
- Gli sviluppi sociali della nostra esistenza ci stanno portando verso forme di società che trascurano i valori di comunità e, di questa, stanno perdendo lo spirito, come se della comunità non sentissimo più il bisogno.
- Quanto meno percepiamo il bisogno di comunità, tanto più le forme che lo soddisfano sono deficitarie e, quindi, tanto più cresce il nostro malessere esistenziale.
- Alla base del bisogno di comunità vi è quello di relazioni empatiche; il counseling è un’esperienza di relazione empatica che risveglia il bisogno di comunità e, conseguentemente, ne alimenta le possibilità di soddisfazione.
- La socialità, come bisogno di contatto e di relazione con i propri simili, soddisfa un ventaglio di bisogni correlati, in particolare quelli di: Identificazione, Appartenenza, Riconoscimento, Sicurezza.
- Le forme sociali dell’esistenza umana (coppia, famiglia, gruppo, comunità, società) concorrono tutte alla soddisfazione di questi bisogni.
- Alla base di ogni forma sociale, che l’esistenza umana costituisce, risiede un qualche principio di unità, che tiene insieme i membri che la compongono.
- Per assolvere il proprio scopo di tenere unite le persone che la compongono, ogni forma sociale (dalla coppia alla famiglia, al gruppo, alla comunità, all’intera società) ha bisogno d’essere socialmente riconosciuta e, in qualche modo, introiettata nei sentimenti dei singoli individui.
- Questo senso/riconoscimento di unità é così importante per l’uomo da portarlo a esprimerlo e a rappresentarlo socialmente con effigi, sculture, riti e miti, che reificano la realtà di quest’unità, materializzandola simbolicamente.
Ricapitolando: stare, sentirsi, riconoscersi uniti, percepirsi come un tutt’uno, è una caratteristica e un bisogno fondamentale del genere umano, la cui soddisfazione riguarda una costellazione di altri bisogni, in primis quelli d’identificazione, appartenenza, riconoscimento, sicurezza.
La percezione di essere uguali ad altri e il relativo senso di collegamento-unificazione con gli stessi è alla base del nostro senso d’identità sociale; la cui percezione é indispensabile per la definizione di ogni identità personale (non si può essere qualcuno in un vuoto sociale).
Riconoscerci uguali ai nostri simili, individui con stesse caratteristiche naturali, perché appartenenti alla stessa specie di creature, inevitabilmente produce un senso d’identità, che ci permette di stare insieme e uniti.
Il senso di unità sociale percepito da ciascuno di noi come senso di appartenenza a una o a più forme di realtà sociali è un senso indispensabile per la costituzione e il riconoscimento di una nostra specifica identità, cioè una visione e un senso di noi stessi in grado di salvaguardare la nostra integrità psichica; un’integrità senza la quale sprofonderemmo nelle nostre paure, in primis quelle collegate all’incertezza del vivere, con tutte le difficoltà che questo comporta (prova ad immaginare come ti sentiresti se ti ritrovassi solo a vivere in un mondo senza traccia alcuna di tuoi simili!).
Alla necessità di soddisfare il bisogno di “unità comune” possiamo persino associare la nascita e lo sviluppo dell’esperienza religiosa umana, valorizzando la teoria di Durkheim che vede la nascita e lo sviluppo delle forme religiose della vita umana come un riflesso e una necessità della società.
Presentiamo qui tale teoria [tratta da Durkheim, “Le forme elementari della vita religiosa”, Edizioni Comunità, Milano, 1963 – opera originale in francese, Parigi, 1912], per la capacità di chiarire l’importanza delle forme sociali dell’esistenza umana, mostrandone la naturale funzione di fecondazione/organizzazione degli strumenti culturali attraverso cui l’uomo declina, rendendola possibile, la propria esistenza.
LE FORME ELEMENTARI DELLA VITA RELIGIOSA
Durkheim formula la propria teoria prendendo spunto da studi sul campo di società australiane primitive, a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
I membri di queste società trascorrevano una vita suddivisa in due fasi alterne e diverse.
In una, vivevano sparsi in piccoli gruppi familiari, attendendo a occupazioni di ordinaria sussistenza (piccola caccia e pesca, raccolta di erbe e cereali).
Nell’altra, per periodi che potevano durare pochi giorni o alcuni mesi, si concentravano tutti, per partecipare collettivamente ad attività rituali – religiose – tribali, collegate ad avvenimenti di rilevanza sociale (iniziazioni, matrimoni, caccia grossa, battaglie, unificazione di clan diversi, funerali, scambi commerciali, ecc.).
In queste occasioni, i partecipanti ai riti tribali – religiosi vivevano esperienze parossistiche di straniamento psicologico, nelle quali, stando ai loro racconti, entravano in contatto con forze ed entità soprannaturali, corrispondenti alle loro credenze totemiche.
Sulle cause di tali ierofanie (manifestazioni del divino) Durkheim non ha dubbi: le collega agli effetti allucinogeni dell’esaltazione sensoriale psicofisica vissuta in occasione dei rituali della società tribale, ma l’aspetto più interessante che questa interpretazione propone è la teoria alla stessa collegata.
Per Durkheim (e come non essere d’accordo?!) “l’uomo è duplice, in lui vi sono due esseri: un essere individuale che ha la sua base nell’organismo (il cui ambito d’azione non può che essere limitato) e un essere sociale, che rappresenta in noi, intellettualmente e moralmente, la realtà più alta che possiamo conoscere mediante l’osservazione e l’esperienza personale, cioè la società … una società possiede tutto ciò che occorre per risvegliare negli spiriti, con la sola azione che essa esercita nei loro confronti, la sensazione del divino”.
Le forme elementari della vita religiosa sono quelle dei simbolismi, delle credenze e dei rituali totemici.
I totem primitivi sono soggetti assolutamente ordinari, se non, addirittura miserrimi (il topo, la lucertola, il bruco, la formica).
Non può quindi essere la loro natura intrinseca a determinarne l’essenza divina e la funzione denominativa (ogni clan e tribù ha come nome proprio quello del proprio totem).
Inoltre, non sono i singoli individui totemici (il topo, la lucertola, la formica, ecc) a essere oggetto di culto, ma le loro rappresentazioni simboliche-sociali, i totem, appunto!
È il totem, che da simbolo di rappresentazione di appartenenza sociale si trasforma in idolo, un’unità fisica che incarna il senso del divino e ne possiede il massimo grado di sacralità.
Gli spazi e i tempi che il totem presidia diventano sacri; sono spazi e tempi separati dalla vita ordinaria, profana (la separazione sacro-profano che sancisce la scansione dei tempi e degli spazi sociali è una “prova” dell’identità “religione-società” di cui stiamo parlando).
In occasione delle grandi adunanze tribali, le raffigurazioni totemiche sovraffollano l’esperienza, sono sui corpi di tutti i partecipanti e in ogni dove deputato alle attività rituali.
Nell’eccitazione che il rito collettivo produceva in ogni partecipante, la massiccia presenza delle immagini totemiche non poteva che invadere l’immaginario collettivo e fagocitarlo.
In una sorta di procurata psicosi di gruppo, si affollavano i sentimenti di reciproca identificazione (tutti erano contrassegnati dalla stessa immagine totemica e tutti si vedevano uguali).
Il fenomeno dell’identificazione avveniva non solo tra i partecipanti al rito, ma tra questi e il totem stesso (erano tutti un topo o una lucertola o quel particolare vegetale che il totem simboleggiava), alimentando la credenza d’essere tutti una sua emanazione (sia gli uomini della tribù, sia gli animali o i vegetali che avevano dato sembianze al totem).
Il totem, quindi, da simbolo di appartenenza sociale e, quindi, suo effetto, diventa causa di appartenenza sociale, divinamente generata.
Il totem è anzitutto un segno, che l’uomo trae profanamente da un qualche elemento della propria esistenza quotidiana, qualcosa nella stessa particolarmente presente e in vista; un segno utilizzato per marcare i propri spazi e la propria appartenenza sociale; un segno che è quindi rappresentazione simbolica della società in cui l’uomo vive, per dirla con Durkheim.
Tale segno-simbolo finisce col rappresentare, insieme alla società (ai suoi membri e a tutto ciò che in essa esiste), anche le forze straordinarie che l’hanno generata, senza che gli uomini si rendano conto d’essere stati loro stessi a subire le influenze psico-sociali di quel simbolo fino a immaginarlo dio.
Citiamo Durkheim:
- “il totem esprime e simboleggia due cose diverse, la divinità e la società (il clan, prima, la tribù, poi); di questa è la bandiera, è il segno in virtù del quale ogni clan si differenzia dagli altri, il segno visibile della sua personalità, impresso su tutto ciò che fa parte del clan a qualsiasi titolo – uomini, animali, cose. Se esso è dunque insieme il simbolo del dio e della società, ciò non vuol forse dire che il dio e la società fanno un tutt’uno?”
Durkheim parla ripetutamente di “esaltazione”, di “effervescenza”, di “delirio”, di “sovreccitazione” che caratterizzano l’esperienza dei rituali tribali – religiosi.
Letteralmente ci dice:
- Si capisce facilmente che, giunto a questo stato di esaltazione, l’uomo non si riconosca più. Sentendosi dominato e trascinato da una specie di potere esterno, che lo fa pensare e agire diversamente che in tempo normale, egli ha naturalmente l’impressione di non essere più se stesso. Gli sembra di essere divenuto un essere nuovo: le decorazioni con cui si traveste, le specie di maschere con cui si ricopre il volto, simboleggiano questa trasformazione interiore più ancora che non contribuiscano a determinarla. E dato che, nello stesso momento, tutti i suoi compagni si sentono trasfigurati nella medesima maniera, traducendo il proprio sentimento con le loro grida, i loro gesti, i loro atteggiamenti, tutto accade come se egli fosse stato realmente trasportato in un mondo speciale, del tutto diverso da quello in cui vive di solito, in un ambiente popolato da forze eccezionalmente intense che lo invadono e lo trasformano. Come potrebbero esperienze di questo genere, specialmente quando si ripetono ogni giorno durante settimane, non infondergli la convinzione che esistono effettivamente due mondi eterogenei e incomparabili tra loro?
L’uno è quello in cui egli trascina languidamente la sua vita quotidiana; invece nell’altro egli non può penetrare senza entrare subito in rapporto con potenze straordinarie che lo galvanizzano fino alla frenesia: il primo è il mondo profano, il secondo è quello delle cose sacre.
Il dio del clan, il principio totemico, non può essere dunque che una rappresentazione del clan medesimo, alias della società; tale principio totemico si presenta all’immaginazione dei suoi membri, incarnato nelle forme simboliche che lo rappresentano; forme simboliche tratte da ciò che l’esperienza quotidiana maggiormente mette in risalto: un animale o un vegetale particolarmente presente – rilevante nella quotidianità dell’esistenza sociale stessa.
Le raffigurazioni totemiche, in occasione delle adunanze sociali, sono un simbolo impiantato in ogni dove, compresi i corpi umani; un simbolo che invade la vista e l’esperienza fino a sopraffarla emotivamente, sostenendone le relative immaginazioni, che vedono nel totem la raffigurazione di esseri soprannaturali, primordiali, fondatori e ordinatori dell’esistenza dell’intera tribù e, quindi, di ogni suo membro.
Tutto questo può accadere in forza della duplice natura, individuale e sociale, dell’uomo.
La realtà più imponente, magnifica e prepotente di cui l’uomo fa esperienza reale, è la società, alias le forme sociali organizzate che ne inquadrano e governano l’esistenza.
È da queste che traggono spunto le idee e i sentimenti degli individui (da ciò con cui più sono in contatto); idee e sentimenti che, socializzati, danno il via alla produzione delle rappresentazioni collettive riguardanti la vita, il mondo, l’universo.
Nella particolarità di certe esperienze sociali (quelle di gruppo, tanto più quando lo stesso assume proporzioni di massa), l’individuo supera se stesso, sia quando pensa, sia quando agisce; le sue emozioni e i suoi sentimenti si amplificano fino al parossismo, aprendosi all’esperienza mistica-religiosa.
Nell’esistenza primitiva umana, il ritrovarsi in gruppo, condividendo emozioni, sentimenti e sensazioni (il linguaggio ancora non si era formato), è stata l’esperienza che ha acceso il senso del divino; un senso fagocitato dalle rappresentazioni simboliche del vivere sociale (i totem).
Ogni forma di organizzazione sociale, storicamente sviluppatasi, si regge su rappresentazioni simboliche (religiose nelle società primitive, anche laiche, ma ugualmente pregne di valenza spirituale, in quelle successive) del vivere sociale.
Le rappresentazioni simboliche del vivere sociale sono gli impianti culturali che, gestendone le tensioni (materiali ed emotive), lo organizzano e rendono possibile.
Per gli uomini, incontrarsi è input emotivo che impone proprie espressioni e smuove sentimenti (di curiosità, di paura, di attrazione, di conoscenza, di contatto, di scambio) che muovono relative azioni e comportamenti.
Negli incontri di gruppo, quando la verbalizzazione non si era ancora formata come struttura linguistica e mezzo di comunicazione, la condivisione di stati d’animo e intenzioni non poteva che avvenire attraverso espressioni vocali, gesti e atti simbolici.
Accadeva allora che le espressioni dei singoli (ogni sorta di vocalizzazione paralinguistica e ogni emissione acustica, ogni gesto e azione), incontrando quelle degli altri, si sintonizzassero, unificandosi, spontaneamente fino all’unisono.
Il tutto avveniva in un moto di continua amplificazione collettiva, che produceva un’intensità emotiva/psichica talmente forte, meravigliosa e sorprendente, da essere vissuta/interpretata, da chi ne stava facendo esperienza, come frutto della presenza e dell’azione di esseri superiori, al cui operato diventava scontato ricondurre le ragioni di ciò che stava accadendo e di ogni avvenimento straordinario, cui non si sapeva dare altra spiegazione.
Riusciamo a farci un’idea del bisogno di stabilire un rapporto con tali “esseri superiori”?
Riusciamo a comprendere la paura d’essere da loro sopraffatti e il collegato bisogno di farseli amici e riceverne i favori?
Non ci stupirà allora scoprire che gli uomini primitivi, semplicemente e spontaneamente, abbiano rielaborato il proprio comportamento sociale, ammantandone i simboli e i rituali di valenze e significati religiosi.
L’identificazione società – simbolo – divinità – rito si presenta così come leva di rielaborazione culturale dell’esperienza sociale dei singoli individui, i simboli sociali diventano divinità, i rapporti con gli dei sono ritualizzati e utilizzati come forme di manutenzione sociale (nel senso che diventano strumenti di ordine e stabilità sociale), tutto viene assorbito nella dimensione socio-culturale dell’esistenza umana.
Le forze divine, gli dei, nascono dalla vita sociale e alla stessa finiscono con dare senso, forma e organizzazione.
È quindi l’esaltazione psichica collettiva, socializzata attraverso forme rituali – simboliche, l’esperienza sociale fecondatrice della vita religiosa e delle sue forme; forme di cui è impossibile non riconoscere la funzione di costituzione e tutela dell’ordine sociale.
Intorno ai rituali sociali maturano, via via, le credenze religiose e le cosmogonie interpretative dell’origine del mondo, della vita e di ogni singolo soggetto che lo abita.
Insomma, l’evidenza ci permette di affermare che noi uomini tendiamo a trasformare gli spiriti di cui ci sentiamo impossessati in simboli e rituali religiosi e li utilizziamo, da un lato, come strumenti d’individuazione e identificazione sociale, dall’altro, li ipostatizziamo come forze divine generatrici della società in cui viviamo.
In altre parole, trasformiamo gli dei, alias le forze divine con cui ci sentiamo e pensiamo d’essere in contatto, in forze ordinatrici della natura, delle condizioni e delle nostre forme sociali.
Così gli dei diventano, nella nostra percezione, forze emanatrici dei principi e delle regole del nostro vivere sociale, che ne confermano l’indispensabilità e la naturalezza.
Le “forme elementari della vita religiosa” sono quindi “forme elementari di cultura umana”, rappresentazioni simboliche – rituali del vivere sociale.
Società e cultura sono un binomio inscindibile, per l’esistenza umana, come l’asse natura – società.
La cultura è la funzione che governa i rapporti natura – società – esistenza umana.
L’esistenza umana avviene su due piani; quello ordinario/materiale e quello straordinario-spirituale; il primo è il piano profano, il secondo è quello sacro; alla gestione del primo sono deputate le attività di sostentamento materiale e le relazioni sociali; alla gestione del secondo è deputata la religione e/o la spiritualità.
Comunque, che sia collegata al profano o al sacro, la vita umana è retta da vissuti emotivi/sentimentali che necessitano d’essere gestiti e governati; la cultura umana serve a gestire (con i suoi simbolismi, con i suoi rituali religiosi e laici, le sue attrezzature e forme organizzative, i suoi oggetti e tutte le sue forme) l’esistenza umana.
Insomma, non c’è uomo senza società e non c’è società senza cultura.
La cultura umana si è organizzata, nelle sue forme primitive, su basi religiose.
Tutto questo ha portato Durkheim a formulare la tanto famigerata teoria secondo cui è la società l’istanza creatrice della religione; è dal vivere sociale che l’uomo trae le forme della propria religione, che poi utilizza per regolare il proprio stesso vivere sociale, usandole come idioma e criterio di stratificazione e di organizzazione societaria.
In altre parole:
- dalla propria esperienza sociale l’uomo trae le forme (simboli e rituali) religiose che gli servono per dare senso e stabilità al proprio vivere sociale e, conseguentemente, ad ogni singola esistenza;
- su simboli e rituali religiosi si poggia non solo la stabilità e la sopravvivenza di ogni società umana, si poggia anche ogni sua dinamica di sviluppo/cambiamento; infatti, ogni sviluppo della complessità sociale è storicamente associato ad uno sviluppo/cambiamento delle credenze collettive in materia di religione.
Anche per questa ragione il declino di ogni società è storicamente accompagnato dalla caduta delle sue divinità!
Lo studio delle “forme elementari della vita religiosa” che Durkheim propone ha, tra gli altri, il grande valore di evidenziare quanto la società faccia parte della natura umana e ne sia la più alta manifestazione.
Per ogni uomo, l’esperienza sociale di condivisione dei propri stati d’animo, belli o brutti che siano, il riconoscimento di provare, insieme ad altri, identici sentimenti, produce il conforto di non essere solo.
L’evidenza di provare stesse sensazioni ed emozioni, stessi sentimenti e pensieri, l’evidenza di poter fare le stesse cose degli altri, lo rassicura sulle possibilità della propria esistenza, sulla propria normalità e giustezza, gli dà sicurezza circa il senso della propria vita e la possibilità di viverla, gli permette di riconoscere la propria appartenenza a qualcosa di più grande di lui e, per questo, in grado di proteggerlo contro le difficoltà e i rischi personali cui la vita lo sottopone.
La condivisione di gruppo di emozioni, sentimenti e sensazioni, ha acceso, nell’uomo, il senso del divino, che è servito per sostenere le sue forme culturali di organizzazione sociale.
Alla base dell’esistenza sociale umana si evidenzia, quindi, un’esperienza spirituale, che è un riflesso delle facoltà di sentimento del genere umano, cui conseguono, naturalmente, varie forme di produzione culturale.
Proponendo la dimensione sociale dell’esistenza umana come matrice e propulsore d’immaginazioni collettive e comportamenti rituali – simbolici, da cui prendono vita e sviluppo tutte le forme di pensiero volte ad amministrare l’esistenza dei singoli e ogni loro tumulto emotivo, Durkheim mette in luce quella che sembra essere l’architettura dell’esistenza umana: Sentimento – Società – Cultura.
La facoltà di provare e socializzare emozioni, sentimenti e sensazioni é, quindi, alla base del naturale sviluppo socio-culturale umano e delle collegate, singole, esistenze; non poggiarsi su questa facoltà per governare ogni genere di vicenda umana vuol dire muoversi contro la natura stessa dell’uomo e, perciò, produrre derive nefaste per la sua esistenza.
La relazione di Counseling, attività sociale organizzata intorno alla valorizzazione del sentire, agisce, per chi ne fa esperienza, come fonte di apprendimento personale in grado di trasformare i propri atteggiamenti mentali e comportamentali, affinché siano funzionali alla soddisfazione dei propri bisogni e alla cura dei propri interessi.
La relazione di Counseling si sostituisce così, simbolicamente, a esperienze sociali fallimentari, offrendo ciò che queste non hanno saputo dare: rassicurazione, protezione, conforto, orientamento e assistenza.
GRUPPO E COMUNITA’, STRUTTURE CARDINE DELLA SOCIALITA’.
Le prime forme della vita religiosa originano da un’esperienza che precede quella del pensiero e della riflessione logico-analitica; originano da un’esperienza che è quella della condivisione collettiva, di gruppo, di stati emotivi sempre più alterati dall’eccitazione e dall’esaltazione, derivanti dal loro essere condivisi spontaneamente, in condizioni socio-relazionali pressoché prive di limiti e confini moralistici/normativi.
Chi vive queste esperienze trae dalle stesse il senso del magico, dello straordinario, del sacro; un senso del magico, dello straordinario, del sacro che diventa idioma e criterio di suddivisione temporale-spaziale e di stratificazione sociale.
L’acquisizione e l’utilizzo di un criterio di suddivisione spazio-temporale di ciò che ha vita (umana e non) è una condizione fondamentale della suddivisione/stratificazione sociale dell’esistenza umana, è il principio organizzativo della nascita e dello sviluppo delle società umane.
In ogni società, storicamente conosciuta, ritroviamo l’organizzazione della suddivisione-differenziazione spazio-temporale e sociale del sacro e del profano: i riti collettivi che danno origine alle forme elementari della vita religiosa sono confinati in tempi, in spazi e in comportamenti sociali ben distinti dall’ordinario vivere quotidiano.
Elemento di base, fondamentale, di tutto ciò è il raggruppamento sociale, che si organizza con simbolismi, rituali e idealità varie.
Quella del gruppo è un’unità di base di ogni società, paradigma originario dello spirito comunitario che la sostiene.
Riprenderemo la disamina degli elementi caratterizzanti lo spirito comunitario e la comunità come struttura socio-culturale a questo collegata.
Soffermiamoci, adesso, sulla naturale tendenza umana al raggruppamento, allo stare insieme, alla condivisione dell’esistenza.
In ciò che abbiamo finora scritto, parlando di “natura sociale dell’esistenza umana”, abbiamo abbondantemente disquisito del bisogno umano di vivere in una dimensione sociale.
Abbiamo visto come, il vivere nella dimensione sociale dell’uomo, produca effetti che diventano principi organizzativi di quello stesso vivere sociale e come, tra questi principi organizzativi, abbiano un ruolo preminente le credenze collettive, laiche o religiose che siano.
Il bisogno di condividere la propria esistenza, per ogni singolo uomo, è comunemente riconosciuto come “bisogno di appartenenza sociale”.
Soffermiamoci su quanto sia importante, per noi uomini, soddisfare questo bisogno:
- Ogni nostra esperienza di vita, ogni idea che ci facciamo di noi stessi e di tutto ciò che ci circonda, è un costrutto derivante dalle relazioni che intratteniamo con i nostri simili.
- La gran parte dei nostri bisogni sono soddisfatti solo grazie ai nostri rapporti sociali.
- Il sentirci parte di una qualche realtà sociale soddisfa il nostro bisogno di sicurezza, relativo alla possibilità di soddisfare questi bisogni.
- Nessuno può vivere senza il rapporto con i propri simili o senza qualcuno che lo sostituisca, che, nella percezione individuale, diventa un proprio simile (vedi i casi di bambini cresciuti da qualche gruppo animale; vedi quanto presenta K. Lorenz, con la sua teoria dell’ “imprinting”; vedi tutte le teorie sull’attaccamento, in particolare quanto riportato nel capitolo sull’infanzia, di questo stesso manuale).
- Una persona che non avesse il senso di far parte di una realtà sociale più grande di sé, dove poter incontrare propri simili, riconoscerli e da questi essere riconosciuto, altri da sé con i quali entrare in relazione, scambiare accoglienza, azioni di aiuto, condividere interessi, confrontarsi e misurarsi, ebbene una tale persona non riuscirebbe a vivere, perderebbe lo spirito vitale che la anima, cadrebbe in uno stato depressivo dentro il quale perderebbe il senso di se stessa e della propria vita, accelerandone precipitosamente la fine.
Nella vita di ogni individuo, il bisogno di appartenenza sociale trova specifiche soddisfazioni in ogni particolare esperienza di gruppo da questi ricercata e vissuta.
Innanzitutto perché, nonostante l’esistenza sociale sia un bisogno umano, spesso è anche motivo di difficoltà e crisi personali.
Far parte di un gruppo, parteciparvi, è una facilitazione al farvi fronte.
Due sono le caratteristiche fondamentali di ogni gruppo sociale:
- I membri / gli appartenenti hanno in comune uno o più elementi/caratteristiche soggettive;
- Il mutuo soccorso.
Avere in comune qualcosa vuol dire “essere uguali” (almeno in quel qualcosa), vuol dire, quindi, avere stessi bisogni; questo produce stessi sentimenti e naturali, reciproci, moti di attrazione.
I membri di un gruppo possono essere diversi e differenti in vario modo, e per varie ragioni, ma qual cosa di specifico e particolare e, almeno contingentemente, importante, li rende uguali.
Si può essere uguali per appartenenza di genere sessuale, per età, per comuni circostanze sociali e/o esistenziali, soldati o reduci di guerra, teenager o pensionati, compagni di classe/formazione o di squadra sportiva, praticanti una stessa professione o vittime di una stessa sciagura, ecc ecc.
Formare gruppo tra “pari” e/o tra simili che condividono circostanze simili, individui che condividono una stessa particolare identità sociale, o una stessa condizione soggettiva/esistenziale, è una tendenza spontanea e naturale della condizione umana, aiuta il singolo individuo ad affrontare le difficoltà di un’esistenza che presenta, progressivamente, nel suo incedere, “conti sempre più salati”!
Non è un caso che l’esperienza dell’appartenenza a una o più realtà di gruppo caratterizzi l’esistenza umana nelle fasi e nei cicli di vita in cui più si è a rischio di non farcela a sopportarne le prove.
Da bambini si è protetti dalla famiglia; da adolescenti questo non basta più e le esperienze di vita di gruppo diventano indispensabili (vedi capitolo sull’adolescenza).
Per tutti i soggetti socialmente, storicamente, deboli (i giovani, le donne, i lavoratori dipendenti, gli omosessuali) è stato spontaneo e naturale unirsi in gruppi di auto difesa e/o di rivendicazione dei propri diritti.
Tutte le soggettività professionali, economiche e/o politiche, si riuniscono in gruppi sociali per la difesa dei propri interessi e dei propri diritti.
Gli effetti positivi e/o negativi dell’esistenza di ogni gruppo sociale sono correlati alle funzioni di leadership in esso esercitate; questo vale sicuramente per chi ne fa parte e vale, anche, per l’intero campo esistenziale e socioculturale in cui lo stesso gruppo agisce.
Della leadership, come indispensabile funzione dell’esistenza umana, si parlerà nell’ultimo capitolo di questa parte del presente manuale, dedicata alla natura sociale dell’esistenza umana.
Ritorniamo ora al tema “Comunità”.
Ripartiamo dal senso di comunità, inscritto nella sua stessa parola, “Comunità” = comune unità.
Ogni struttura sociale, dalla coppia alla famiglia, dal gruppo di pari alla tribù, dall’oratorio al partito politico, si fonda su questo binomio, sull’unità di qualcosa che è comune.
Con il termine comunità, però, più precisamente indichiamo un qualcosa che è la massima espressione del binomio “comune unità”; comunità è la struttura sociale in grado di contenere tutte le altre (ogni struttura sociale, dalla coppia alla famiglia, dal gruppo dei pari a ogni organizzazione politica/economica/culturale, ha una propria “comune unità”); comunità è il vivere sociale, che dello stesso travalica gli aspetti materiali, per affermarsi, con forza, in quelli ideali, morali, spirituali ed affettivi.
Il concetto di comunità, basato sul valore di “comune unità”, apre le porte a un’articolazione infinita di comunità, da quella dei santi, degli eroi, dei poeti, dei sognatori, dei maestri a quella internazionale, locale, montana e via dicendo.
In questa sede, siamo quindi interessati sia al concetto di “comunità in senso stretto” sia al concetto di “comunità in senso ampio”.
In senso “stretto”, ci riferiamo alla comunità come a quell’unità di persone che hanno in comune la complessità del vivere sociale, politico, culturale, economico, in uno specifico territorio, geograficamente delimitato.
In senso “ampio”, ci riferiamo a ogni tipo di comunità, ideale, reale e/o di pratica, i cui membri condividono una o qualche attività, un senso ed uno spirito di appartenenza, legati ad un qualche aspetto specifico della propria esistenza, che individua la più volte citata “unità comune”, che li porta a prestarsi reciprocamente aiuto e ad agire comunemente, principalmente per istanze collegate a questioni relative, per l’appunto, alla propria “unità comune” (ad esempio, noi counselor siamo o potremmo essere una “comunità in senso ampio”, reale, di pratica e/o ideale, di spirito, la cui “unità comune” è la nostra identità professionale ed i modi in cui la realizziamo ed affermiamo).
Una comunità di persone è una struttura sociale più o meno formale, i cui membri condividono aspetti materiali, ideali e sentimentali, che preordinano le loro relazioni e le facilitano, principalmente in ordine al disbrigo di faccende relative alla loro “unità comune”.
La cultura, i valori morali e le idealità di una “comunità in senso stretto” la definiscono e ne regolano l’organizzazione; nutrono e sono nutriti dai, funzionalmente corrispondenti, valori morali e dalle idealità che caratterizzano ciascuna delle strutture sociali attraverso cui l’intera comunità si articola, dalla coppia alla famiglia, dai vari gruppi sociali ad ogni altro tipo di “comunità in senso ampio”, che della “comunità in senso stretto” fanno parte.
Il concetto di comunità sfugge a classificazioni univoche o assolute, ma ogni tipo di comunità, in senso stretto o ampio, reale, di pratica o ideale, si regge su di un sistema culturale di valori e norme, che essa stessa ha creato e che essa stessa sviluppa o rivoluziona.
Abbiamo già accennato al fatto che la cultura umana nasce e si sviluppa come effetto della natura sociale dell’esistenza umana.
Società e cultura sono un binomio inscindibile, in mezzo al quale, però, troviamo immancabilmente una qualche forma di comunità.
Ogni forma di società umana storicamente riconoscibile è un’aggregazione sociale, sostenuta da una qualche forma di spirito comunitario, che ne orienta gli sviluppi culturali e ne permette la sopravvivenza; potremmo affermare che nella storia umana non esiste cultura senza una qualche forma di comunità (e viceversa)!
Storicamente, il passaggio da un’economia di sussistenza, basata sull’autosufficienza (piccole attività agricole e/o di caccia, eseguibili singolarmente o in poche unità di persone), a forme di economia e di bisogni che necessitavano la cooperazione di ampie quantità di persone (come la caccia a, e/o la difesa da, animali di grosse dimensioni e/o particolarmente feroci), ha valorizzato dell’uomo le “potenzialità comunitarie”.
Ogni struttura sociale nasce e si sviluppa per rispondere ai bisogni di chi ne fa parte; poi accade che si continui a tenerla in vita, anche quando non soddisfa più i bisogni per i quali è esistita.
Questo avviene perché ogni struttura sociale è anche una struttura mentale.
Le strutture mentali cambiano con velocità inferiori a quelle dei bisogni e dei comportamenti che li soddisfano.
Cambiano prima i bisogni, poi i comportamenti e i sentimenti, solo in ultimo cambiano le idee su quei bisogni, quei sentimenti, quei comportamenti (come insegnano gli storici della “Ecole des Annales”, con la loro considerazione della mentalità come struttura ultraresistente al cambiamento; in particolare in F. Braudel, prefazione a “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II”, 1949, e nell’articolo La longue durée ‘La lunga durata’, 1958).
Una struttura sociale nasce come funzionale alla soddisfazione di un bisogno e diventa essa stesso un bisogno con il suo perdurare nel tempo.
Per comprendere le dinamiche di cambiamento, riguardanti qual si voglia struttura sociale, é indispensabile un buon contatto con il, ed una buona visione del, cambiamento dei bisogni umani.
Qualunque sia il bisogno che una struttura sociale soddisfa, si tratta sempre di un bisogno per la cui soddisfazione è indispensabile il concorso di più persone.
Il concorso di più persone, in materia di soddisfazione dei bisogni, arricchisce il valore dell’esperienza dei singoli.
“La comunità è il meccanismo più evoluto per creare valore, attraverso la reciprocità”; “la comunità nasce da tre mutualità: mutuo riconoscimento, mutuo beneficio, mutua assistenza”. (vedi: Paolo Venturi, in G. Bosticco e M. Dotti, “Costellazioni. Sette lezioni sulla comunità”, Guerini e Associati, 2021).
Siamo contemporaneamente parte di più comunità.
Vivere appartenendo a più comunità pone la questione dell’identità e della diversità e dei confini che le delimitano e le definiscono.
Come ci poniamo, individualmente e collettivamente, in materia di “identità e diversità”? Come ci poniamo circa la gestione dei confini che definiscono le nostre e le altrui identità e diversità?
L’appartenenza a una comunità soddisfa un bisogno di identità e di individuazione, che dà valore a noi stessi come singoli individui, un valore che, a sua volta, si riflette sulla stessa nostra comunità di appartenenza.
L’appartenenza a una comunità sostiene due forme di identità: quella personale e quella sociale.
La comunità è un “luogo” (come ogni altra struttura sociale) che rende possibile la soddisfazione, tra gli altri, di tre bisogni fondamentali dell’uomo:
- La realizzazione e l’affermazione personale,
- La realizzazione e l’affermazione sociale,
- Il riconoscimento personale e sociale.
Per soddisfare tali bisogni i comportamenti individuali oscillano tra la competizione e la cooperazione, l’egoismo e l’altruismo, la solidarietà e il conflitto (alias la sopraffazione), la difesa/promozione dei diritti di tutti e l’appropriazione di privilegi personali e/o dei particolari gruppi sociali di appartenenza.
L’aggettivo “comune” e il sostantivo “comunità” sono due realtà antitetiche a tutto ciò che attiene l’appartenenza e o la proprietà individuale.
La comunità è, ed ha, il valore di ciò che è comune, di tutti. Tutti partecipano a una realtà comune, ognuno è partecipante, comunicante con altri, è parte di un tutto del quale gli altri pure sono parte, in una logica di scambio, di accoglienza reciproca, di edificazione di un progetto comune.
C’é quindi un senso e un valore di “Comunità” collegato alla “comune umanità” delle persone, alla condivisione naturale di ciò che naturalmente è comune in tutti noi.
Come ci dice Roberto Esposito (Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998), comunità è la ricchezza del dono di sé:
- Comunità ha un’etimologia che discende dal latino communitas, ma anche da cum-munus, dono scambiato. Comunità quindi come condivisione di doni, tra i quali spiccano quelli del dovere e della responsabilità.
Esposito ci ricorda che la communitas non fa accedere a una proprietà, ma anzi espropria i membri della comunità della loro proprietà più propria: essi devono uscire da se stessi, sentirsi mancanti, «donati a», aperti alla comunione. Far parte della communitas significa condividere con gli altri, esporsi all’altro in una dimensione di gratuità in cui ritroviamo la virtù della dipendenza e quella contraria dell’indipendenza.
Insomma, la comunità, in senso stretto o largo, famigliare o professionale, nazionale o internazionale, l’intera umanità, come comunità umana, è l’insieme di persone unite non tanto da un possesso, da una proprietà, da un “di più”, ma da un “di meno”, da un debito che ciascuno vive verso gli altri; un debito che è anche sempre un dono, il dono di dare se stessi e, in questo senso, il nostro debito verso gli altri è un loro credito, ma siccome, per gli altri da noi, anche noi siamo gli altri, siamo contestualmente debitori e creditori nei confronti della comunità.
In questo valore di comunità come non riconoscere una delle valenze più importanti del counseling?
Il counseling è una relazione interpersonale di mutuo-aiuto (noi aiutiamo i clienti, loro ci aiutano ad aiutarli), ci ritroviamo quindi in un quadro di reciprocità in cui il counselor, in primo luogo, dona la propria presenza e riceve, accogliendoli, i vissuti dei propri clienti, che nella relazione di counseling tendono a diventare presenza.
Una comunità sana e vitale ha come principio fondamentale la predisposizione a “esserci” dei propri membri, cioè a donarsi, reciprocamente, la propria presenza.
La predisposizione a “esserci” è una “qualità” fondamentale dell’identità professionale di noi counselor, che “ci-siamo” per i nostri clienti e con questo nostro esserci evochiamo quanto anticipato nei 15 punti della nostra tesi “La comunità come principale, naturale, declinazione sociale dell’esistenza umana”, presentata come incipit di questo capitolo e che così riassumiamo:
<< Stare, sentirsi, riconoscersi uniti, percepirsi come un tutt’uno, è una caratteristica e un bisogno fondamentale del genere umano, la cui soddisfazione riguarda una costellazione di altri bisogni, in primis quelli d’identificazione, appartenenza, riconoscimento, sicurezza personale.
La percezione di essere uguali ad altri e il relativo senso di collegamento-unificazione con gli stessi è alla base del nostro senso d’identità sociale, un’esperienza indispensabile per la definizione di ogni identità personale (non si può essere qualcuno in un vuoto sociale).
Riconoscerci uguali ai nostri simili, individui con stesse caratteristiche naturali, appartenenti a una stessa specie di creature, inevitabilmente produce un senso d’identità, che ci permette di stare insieme e uniti.
Il senso di unità sociale percepito da ciascuno di noi come senso di appartenenza a una o a più forme di realtà sociali è un senso indispensabile per la costituzione e il riconoscimento di una nostra specifica identità, cioè una visione e un senso di noi stessi in grado di salvaguardare la nostra integrità psichica; un’integrità senza la quale sprofonderemmo nelle nostre paure, in primis quelle collegate all’incertezza del vivere, con tutte le difficoltà che questo comporta (prova ad immaginare come ti sentiresti se ti ritrovassi solo a vivere in un mondo senza traccia alcuna di tuoi simili!)>>.
Ecco l’importanza della comunità!
Ecco l’impossibilità di farne a meno!
Un’esistenza umana impossibile fuori da un ambito sociale di tipo comunitario, che garantisce perfino gli equilibri psichici individuali, impone le seguenti tre riflessioni:
- La malattia mentale (come tutte le altre) non può essere competenza esclusiva di apparati medico-sanitari. La malattia mentale è una condizione dell’essere di tipo multifattoriale, alla cui “gestione” i saperi e le pratiche di tipo umanistico, come il counseling, danno un importante contributo. La malattia mentale è sempre, in qualche modo, collegata a una disfunzionalità dell’esperienza sociale dei singoli individui, che non aiuta l’adeguata integrazione, nelle relative singole esperienze personali, dei vissuti emotivi, cognitivi e comportamentali. Poiché una persona affetta da una problematica mentale è innanzitutto una persona incagliata in una qualche intersezione di questi vissuti, per una tale persona, un’esperienza di counseling, che è un’esperienza di scoperta e di apprendimento delle possibilità personali di buona integrazione dei propri vissuti emotivi, cognitivi e comportamentali, non può che promuoverne la riaggregazione e i conseguenti effetti benefici.
- Alcuni tipi di comunità, ad esempio la società dei consumi, è essa stessa causa di malattie mentali. In questi casi, sarebbe più adeguato parlare di “anticomunità”, un luogo in cui l’individuo condivide la propria solitudine, senza socializzare stati d’animo, confrontare pensieri critici, costruire e sviluppare mutualità comportamentali di reciproco sostegno e aiuto.
- Quanto più le funzioni di sostegno e aiuto, che la comunità offre ai propri membri, sono assorbite dall’organizzazione statale (nel caso di società dall’avanzato stato di sviluppo e complessità, qual è quella nostra, contemporanea), tanto più, nell’esistenza dei singoli, sono a rischio gli effetti benefici del vivere e dello spirito comunitario.
Questo per due principali ragioni, tra loro collegate:
- Il sostegno che la comunità offre ai propri membri è una risultante della partecipazione attiva e responsabile che nella stessa ogni singolo membro apporta; il trasferimento all’organizzazione statale delle funzioni di sostegno sociale, originariamente appannaggio della comunità, deresponsabilizza la partecipazione dei singoli individui alla vita comunitaria e promuove il progressivo indebolimento di ogni forma d’identificazione comunitaria.
- L’organizzazione statale è una struttura sociale il cui principio organizzativo fondamentale si poggia su procedure e atti formali/amministrativi, non su legami di sangue e/o affettivi, spirituali e/o morali, di mutuo-auto aiuto tra le persone; questo comporta un alto rischio di scollamento tra i bisogni delle persone e quelli di chi è investito, formalmente e amministrativamente, della responsabilità di provvedervi.
Potremmo dire che la nascita dello stato sociale non favorisce lo sviluppo di comunità, fatta salva la possibilità che le persone, che di quello stesso stato sociale fanno parte, non si adoperino in tal senso, come storicamente è accaduto con la nascita e lo sviluppo di varie forme d’associazionismo e di organizzazioni sociali più o meno formali, dal forte spirito comunitario, quali i partiti politici, le chiese, i comitati territoriali, le reti parentali, amicali e di vicinato.
Insomma, lo sviluppo della complessità sociale, e delle attività economiche, dinamizza il concetto e le funzioni di comunità, così come di ogni struttura sociale (famiglia, gruppo, coppia, scuola, partito, chiesa, associazioni, ecc.) a questa collegata.
L’esistenza di una comunità, di qualunque tipo questa sia, attraversa fasi di stabilità, di dinamicità, di cambiamenti, che possono portare alla sua evoluzione o alla sua scomparsa (vedi, ad esempio, la storia di quelle comunità internazionali, che si costituiscono, si sviluppano, si sfaldano, muoiono).
Il rischio di scomparsa dei valori e delle funzioni di comunità in una società che diventa sempre più complessa, soprattutto per il proprio essere votata al consumismo, è sempre più alto.
Più una società diventa complessa, più le sue strutture sono sottoposte a tensioni che ne promuovono il cambiamento, mettendole a rischio di dissoluzione.
Gli effetti di tale rischiosità sono quelli ampiamente denunciati da Bauman, nei suoi scritti sulla “Società liquida”.
Lo “sviluppo” sociale imperniato sui valori del consumismo, promuove dinamiche di affermazioni personali, che non valorizzano alcun collegato tessuto socio-relazionale; questo porta all’indebolimento progressivo del senso, del valore e delle funzioni di comunità, cosa che ancor più alimenta, tra le persone, forme d’individualismo sempre più sfrenate. Non ci sono più compagni, ma solo “competitor” e antagonisti.
Venendo a mancare la forza dello spirito comunitario che dava vitalità alle strutture sociali della nostra convivenza civile, tutto si dissolve in una sorta di “società liquida”, dove si arriva a perdere ogni certezza, principalmente nei confronti di quelle legate alle funzioni pubbliche (la legge e chi la rappresenta, i partiti politici, le istituzioni di assistenza sociale, di scuola e formazione, ecc., ecc.).
L’unica offerta di questa società liquida, per l’individuo senza punti fermi di riferimento, è l’apparire e il consumare.
L’anima del consumismo è il consumare, non è il possedere oggetti di desiderio di cui appagarsi; quindi ciò che si compra è subito obsoleto e l’individuo passa da un consumo all’altro, bulimicamente.
Da tale analisi, Bauman trae la considerazione che, data la nostra immersione in una società liquida, dove il cambiamento è l’unica cosa permanente e l’incertezza è l’unica certezza, elemento indispensabile pere la nostra sopravvivenza sia la forte crescita del nostro senso di responsabilità e dei nostri stati di consapevolezza.
Considerando quanto questo sia facilitato, in situazioni sociali pervase dallo spirito comunitario, e ostacolato, in situazioni sociali opposte, appare chiaro il valore dell’impresa cui siamo chiamati, come singole persone.
Beati allora gli uomini di buona volontà, che si cimenteranno in questa impresa!
Ce ne vorrà tanta, per invertire questa deriva di liquidità sociale, che irrimediabilmente ci annegherà tutti, presto o tardi, se non sapremo riattivare quello spirito di comunità, che antropologicamente caratterizza la nostra umanità e che, storicamente, ha contrassegnato i momenti più felici della nostra esistenza.
A tal proposito sarà indispensabile che tali singoli individui, di buona volontà, si assumano una responsabilità precisa, quella di svolgere tutte quelle funzioni di leadership positiva che una tale impresa richiede.
Di tale materia ci occuperemo nel prossimo capitolo.
[1] (vedi, in particolare, Zygmunt Baumann, “Modernità liquida”, La Terza, 2011)
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